GIOVEDì 20 febbraio 2020 ore 18.30 (Sala Lampertico) Anteprima in V.O. con sottotitoli VENERDì 21 febbraio ore 16.15 - 20.30 (Sala Lampertico) SABATO 22 febbraio ore 16.15 - 18.30 (Sala Lampertico) ore 21.00 (Sala ODEON) DOMENICA 23 febbraio ore 18.15 (Sala ODEON) ore 20.30 (Sala Lampertico) ore 20.30 in V.O. con sottotitoli |
Regia
Bong Joon Ho
Genere
AZIONE, DRAMMATICO, POLIZIESCO
Durata
131'
Anno
2003
Produzione
SEOUNG-JAE CHA, MOO-RYOUNG KIM, JONG-YUN NO
Cast
Song Kang-ho (Detective Park Doo-Man), Sang-Bum Kim (Detective Seo Tae-Yoon), Roe-Ha Kim (Detective Cho Yong-koo), Jae-Ho Song (Sergente Shin Dong-chul), Hee-Bong Byun (Sergente Koo Hee-bong), Seo-Hie Ko (Kwon Kwi-ok) |
Gyeonggi, 1986. Il cadavere di una ragazza violentata scatena le indagini dell'inadeguata polizia locale, intenta più a cercare un capro espiatorio che a trovare il vero colpevole. Gli omicidi si susseguono inarrestabili e un ispettore arriva da Seoul per fare luce sul mistero. Il volto di Song Kang-ho, uno dei migliori attori della sua generazione, guarda in camera attonito e si rivolge direttamente a noi, smarriti e confusi, pieni di "perché". Come è possibile che l'uomo possa compiere atti simili? O forse, se una nazione intera vive all'insegna della violenza e dell'ingiustizia, quanto avviene non è che una naturale conseguenza?
Sull’onda dell’incredibile successo di Parasite, Academy Two recupera un Bong Joon-ho d’annata. Tra i più acclamati film sudcoreani del nuovo millennio, Memorie di un assassino, datato 2003, arriva per la prima volta nelle sale italiane dopo la distribuzione in home video del 2007. In mezzo a tanto cinema autocritico sugli anni bui della Corea del Sud, Memories of Murder si staglia come l'exemplum ideale per restituire il clima di ignoranza e violenza sotto il regime militare nella provincia più sperduta, mantenendo sullo sfondo - anziché giudicando in maniera didascalica - le aberrazioni del governo. Nel 2003, quattro anni prima dell'uscita di uno dei migliori film di David Fincher, Zodiac, un Bong Joon-ho allora trentatreenne conquistava le platee della Corea del Sud con il suo secondo film, Memories of Murder, divenuto un vero e proprio caso cinematografico in patria. Le attinenze fra le due opere non si limitano all'analogia nell'argomento sviluppato in entrambi i casi, ovvero la lunga e sfibrante indagine sulle tracce di un serial killer, ma si estendono a una visione d'insieme e a un preciso approccio narrativo che accomunano il poliziesco di Fincher e il noir di Bong: oggetto, quest'ultimo, della nostra recensione di Memorie di un assassino, nuovo titolo italiano del film in occasione della sua tardiva distribuzione al cinema, sull'onda del gigantesco successo internazionale e del trionfo agli Oscar di Parasite.
Trama
Critica
Operazione curiosa, scaltra quanto temeraria. Nei giorni caldi degli Oscar, la riedizione vorrebbe intercettare quel nuovo pubblico rimasto colpito dall’estro del regista ormai consacrato anche fuori dalla cinefilia. Certo, con la travolgente satira sulla lotta di classe le affinità in superficie sembrano minime, e forse gli spettatori più pigri resteranno un po’ spiazzati.
Tuttavia, prestando più attenzione, emerge dirompente una delle cifre caratteristiche del regista: la straordinaria capacità di far collimare grottesco e tragedia. Elemento deflagrante che qui immerge in un’atmosfera cupa e disincantata, paradigma di un disagio nazionale.
Partendo da un fattaccio di cronaca nera (una serie di delitti avvenuta nella provincia di Gyeonggi tra il 1986 e il 1991) rielaborato nel testo teatrale Come and See Me di Kim Kwang-rim, Bong non si nasconde dietro le allusioni e si colloca esplicitamente nello stesso periodo degli eventi criminali. Mette al centro poliziotti inadeguati e dai modi fin troppo spicci, impegnati in un’indagine che procede secondo le regole dell’istinto e le leggi della strada.
Morbosità e perversione, pioggia e guerriglia, mazze chiodate e pezzi di pesca fuori posto. Mentre l’assassino inafferrabile miete vittime, la polizia reprime la protesta studentesca con una violenza che è sintomo di frustrazione e inettitudine.
Come in tutti i noir, è l’ossessione a definire i confini della detective story. Nel rievocare la cronaca, Bong non si piega alla riproposizione in chiave spettacolare. E nemmeno si accomoda nella confort zone del thriller ad alta tensione.
Se da una parte sceglie un approccio in cui il registro farsesco serve a sottolineare l’ordinaria miseria dell’umanità, dall’altra usa il racconto locale per interpretare e amplificare un dramma di un Paese infetto. “Gli eventi reali di questa città mi intrigano più delle riviste”, dice uno degli indagati.
In Memorie di un assassino percepiamo la psicosi collettiva del serial killer e al contempo i limiti dei difensori dell’ordine, la ricerca di capri espiatori per consegnare un colpevole alla massa affamata e la disperata consapevolezza di quanto la verità sia inafferrabile. Dove non arriva la razionalità, sopraggiunge la folgorazione.
Nel vortice di un pessimismo senza appello, si fissano gli occhi dei sospetti per coglierne l’eventuale sincerità. Come fa il beffardo e lucido detective interpretato dal grande Song Kang-ho, antieroe destinato a convivere con la perenne impossibilità di scoprire la verità.
Tutti gli sguardi hanno delle barriere insormontabili. E non tutte le gallerie prevedono un’uscita per rivedere la luce. Mentre il tempo passa, i morti sopravvivono nel ricordo di chi non si dà pace. La chiusura en plein air (un sole mai visto fino a quel momento), nel presente meno tenebroso del 2003, è una coltellata che non lascia tracce di sangue.
Lorenzo Ciofani, Cinrematografo.it, 6 Febbraio 2020
Tanto la politica è nei gesti, nelle scelte, nel coprifuoco, nella paura della gente, ormai priva di fiducia nei confronti della polizia e dei suoi abusi; sfiducia guadagnata sul campo dai tutori della legge, che nel proprio modus operandi prevedono prove falsificate e confessioni estorte a suon di calci e pugni. Anche nei confronti di ritardati come Kwang-ho o di innocui pervertiti, evidentemente innocenti sin da subito. La narrazione del talentuoso Bong Joon-ho (The Host, Mother) adotta un registro quasi comico per sottolineare il clima farsesco della polizia di regime, ma non ne nasconde incompetenza e brutalità; l'autorità come manganello del potere, che manca degli uomini necessari per impedire un omicidio perché sono tutti impegnati a reprimere una rivolta studentesca.
Nemmeno l'ispettore proveniente da Seoul, presentato da Bong come un infallibile indagatore da libro giallo, riesce a districare la matassa, finendo per farsi trascinare dall'esasperazione figlia dell'impotenza. L'assassino non si può catturare perché invisibile, perché espressione della cattiva coscienza di un Paese malato, perché è ovunque, tanto nella disperazione disumana della baraccopoli quanto nello sciagurato distretto di polizia, dove l'elemento più brillante, in quanto donna, serve al più da cameriera. La fotografia di Kim Heong-gyu sottolinea il clima malsano di Gyeonggi: un abisso di pessimismo sulla natura umana dove è bandita ogni forma di redenzione ma soprattutto di comprensione. Uno dei capolavori della Corea di inizio millennio, oltre che un clamoroso successo di pubblico.
Emanuele Sacchi, Mymovies.it, 13 febbraio 2020
Come avrebbe fatto quattro anni più tardi David Fincher in Zodiac ricostruendo la vicenda del Killer dello Zodiaco nell'America degli anni Settanta, anche Memorie di un assassino prende spunto da un capitolo di cronaca nera entrato nell'immaginario collettivo della Corea: una catena di delitti consumati nell'area metropolitana della città di Hwaseong fra il 1986 e il 1991, la cui risoluzione sarebbe avvenuta soltanto nel settembre 2019, con la confessione del pluriomicida Lee Choon-jae (considerato il primo assassino seriale nella storia della Corea). E il 1986 è non a caso l'anno di ambientazione del film di Bong Joon-ho, il quale si basa su una pièce teatrale scritta da Kwang-lim Kim e adotta come scenario un'area rurale nella provincia del Gyeonggi, nei pressi di Seul.
Nella scena d'apertura, un esterno giorno in un campo di grano che si estende a perdita d'occhio, Park Doo-man (Song Kang-ho), detective della polizia locale, si accinge ad esaminare il canale fognario in cui è stato ritrovato il cadavere di una ragazza, con i polsi legati e il volto cosparso di formiche. Le tinte luminose della campagna, le grida e i giochi dei bambini, uno di loro che si diverte a imitare il detective, ma appena al di sotto della superficie, nell'oscurità, la prova tangibile di un orrore senza nome: una dicotomia contrastiva con cui Bong Joon-ho già stabilisce le coordinate di questo thriller atipico, in cui le convenzioni del genere e le regole della suspense sono subordinate all'osservazione antropologica di una comunità e, forse, di un paese intero durante gli ultimi fuochi del regime militare di Chun Doo-hwan.
Un paese che si riflette nello squallore inesorabile degli interni: che si tratti della stazione di polizia, un edificio grigio e fatiscente dove Park e il suo manesco partner Cho Yong-koo (Kim Roi-ha) sottopongono i sospettati a interrogatori assai poco ortodossi, o dell'appartamento angusto e spoglio di Park, privo perfino di un letto. Bong Joon-ho non va alla ricerca della tensione, limitata a poche, incisive sequenze, ma adotta uno stile naturalista che mostra l'inchiesta di Park e del suo superiore, il sergente Shin Dong-chul (Song Jae-ho), avanzare farraginosamente tra false piste e vicoli ciechi, gravata in partenza dalla carenza di mezzi - e di metodo - di un'autorità inadeguata a far fronte a questo avversario invisibile.
Così, mentre dalla città Seul arriva per collaborare alle indagini il giovane detective Seo Tae-yoon (Kim Sang-kyung), molto più esperto e competente rispetto ai suoi colleghi di provincia, la caccia all'assassino si affida soprattutto a pettegolezzi e a coincidenze quasi miracolose: una malinconica canzone d'amore che risuona alla radio in contemporanea con ciascuno dei delitti, e che potrebbe rivelarsi l'indizio determinante per giungere alla verità. Nel frattempo, Bong impernia gli equilibri del racconto sul rapporto spesso conflittuale fra Park e Seo: due protagonisti complementari, agli antipodi nel modo di intendere la propria professione (e nel forzarne o meno i principi etici), ma sorprendentemente simili l'uno all'altro nella loro incapacità di sostenere con lucidità e distacco il confronto con il Male, beffardo e insondabile. Un Male dai contorni quasi metafisici, a cui il film dà volto - letteralmente - soltanto per una frazione di secondo, prima che tutto sia avvolto ancora una volta dalle tenebre.
Come sarà quattro anni dopo per Zodiac, dunque, quello di Bong è prima di tutto un film sull'ossessione, sull'orrore che si annida oltre il velo del quotidiano, sull'inadeguatezza del raziocinio contro i lati oscuri della natura umana. "Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro", scriveva Friedrich Nietzsche; "E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l'abisso scruterà dentro di te". Per Seo Tae-yoon, fiducioso di poter ristabilire l'ordine e la giustizia, l'abisso si spalancherà nel memorabile prefinale, sottoforma di un tunnel le cui nere fauci sono lì, pronte ad inghiottirlo non appena avrà abbandonato le ancore della ragione e della morale (e l'eco, stavolta, sembra provenire da un altro cult di David Fincher, Seven).
Stefano Lo Verme, Movieplayer.it, 13 febbraio 2020
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