VENERDì 14 febbraio |
Regia
Rupert Goold
Genere
BIOGRAFICO, DRAMMATICO, STORICO
Durata
118'
Anno
2019
Produzione
DAVID LIVINGSTONE PER BBC FILMS, CALAMITY FILMS, PATHÉ, TWENTIETH CENTURY FOX
Cast
Renée Zellweger (Judy Garland), Jessie Buckley (Rosalyn Wilder), Finn Wittrock (Mickey Deans), Rufus Sewell (Sid Luft), Michael Gambon (Bernard Delfont), Richard Cordery (Louis B. Mayer), Royce Pierreson (Burt Rhodes), Darci Shaw (Judy giovane), Andy Nyman (Dan), Daniel Cerqueira (Stan), Bella Ramsey (Lorna Luft), Lewin Lloyd (Joey Luft), Tom Durant-Pritchard (Ken Frisch), John Dagliesh (Lonnie Donegan), Adrian Lukis (Dottor Hargreaves), Gemma-Leah Devereux (Liza Minnelli), Gus Barry (Mickey Rooney), Jodie Mcnee (Vivian) |
L'ultimo periodo della vita della grande attrice e cantante Judy Garland, sul finire di una carriera sfolgorante iniziata giovanissima con la Dorothy del Mago di Oz. Un mix di fama e successo, fra Oscar® e Golden Globe, e poi la battaglia con il suo management, i rapporti con i musicisti, i fan, i suoi amori tormentati e il dramma familiare che la spinse a fare i bagagli e a trasferirsi a Londra. In quegli anni ci ha regalato alcune delle performance più iconiche della sua carriera.
Il Mago di Oz fu il capolavoro dell'era degli Studios, un film in un certo senso senza regista (ne ebbe quattro), in cui ogni reparto lavorava alacremente sotto la guida di Louis B. Mayer e tutto era fatto ad arte e tutto era artefatto. La scena si apre, una strada di mattoni gialli si dirama per un bosco folto, con un cielo che risplende di colori accecanti giusto un po’ più in là, oltre l’arcobaleno. Ma, prima ancora, un viso. Un volto pallido con i capelli corvini ondulati che ne risaltano ancora di più l’innocenza, la genuinità. Dorothy sta per entrare nel mondo di Oz. Non quello delle fate, delle streghe che vengono sconfitte, né degli amici che scoprono di aver sempre avuto un cuore, un cervello e del coraggio. Il mondo di Oz per la giovane star è fatto di disillusioni, di aspettative, di promesse da dover mantenere che richiedono del sacrifico. Come il non dormire abbastanza, il non mangiare affatto.
Trama
Critica
La stessa Judy Garland divenne una creatura della MGM, che la portò al successo mondiale, le tolse il sonno, l'appetito e le impose una dieta a base di sonniferi e antidepressivi che non fu mai in grado di abbandonare.
Il biopic di Rupert Good, già regista di un dramma sul furto d'identità (True Story), insieme all'interpretazione, straziante, di Renée Zellweger, sono qui per dire che dietro le torte di compleanno di plastica, dietro gli abiti di scena e le regole della finzione, c'era una donna che ha sofferto veramente, che ha amato lo show business come un genitore, cercando il suo applauso prima di ogni cosa, e da esso è stata divorata.
Naturalmente Judy Garland non è stata solo Dorothy Gale, ma la ragazzina del Kansas che cantava il suo sogno appoggiata allo steccato, è diventata un'icona immortale e la Zellweger mette i brividi, tirata e ingobbita, per come riesce a replicare il suono della sua voce nel parlato, mentre il copione si muove avanti e indietro tra il '39 e il '69, rinnegando tutto il resto per concentrarsi sull'inizio e la fine, il patto col diavolo e il momento in cui questo ha cominciato a chiedere il conto.
"There's no place like home", sentenziava Dorothy alla fine della sua avventura in technicolor. E Judy ribadisce il concetto, da una prospettiva più drammatica e terminale. L'attrice non ha una casa, né i soldi per pagarla; perciò è costretta a esibirsi per denaro, lontana dai figli, facendo "famiglia" con chi le concede un po' di tempo e di compagnia disinteressata.
Più della figura di Rosalyn Wilder, che si occupò della star durante la tournée londinese al The Talk of the Town e la cui consulenza è stata preziosa in sede di scrittura del film, ma che sullo schermo non ha ruolo che superi più di tanto la sua funzione, convince, in questo senso, l'incontro con la coppia di fan inglesi, l'approdo notturno nella loro cucina e le lacrime al pianoforte: il miglior surrogato di calore domestico che la diva potesse trovare.
Sebbene non aggiunga nulla a quanto già noto, e denunci abbastanza apertamente la sua ispirazione teatrale, Judy è il ritratto riuscito di un dramma esistenziale, che sposa e regge un registro difficile com'è quello del "compassionevole" al cinema, senza cercare a tutti i costi l'equilibrio con la commedia, ma lasciando che essa si affacci solo tra le righe, amarissima, grazie alle straordinarie doti da animale da palcoscenico di Judy Garland e, in questo caso, di Renée Zellweger.
Marianna Cappi, Mymovies.it, 22 ottobre 2019
Con il suo primo movimento di macchina, Judy si addentra nel set di un capolavoro del cinema, quella fantasia creata per gli spettatori e alimentata dalla sua protagonista che, anche se non era la più bella delle ragazze, anche se non era la più magra, aveva qualcosa che nessun altro possedeva: una voce. Ed è proprio la voce che Judy Garland deve ritrovare nell’ultima parte della sua vita, quella messa in scena dal regista Rupert Goold nel biopic che ne ripercorre gli ultimi concerti a Londra, quelli necessari alla sua sopravvivenza e a quella della propria famiglia.
Quindi finzione, prima di tutto. Riflettori, stelle, spettacolo. Questo il sottotesto con cui Judy inizia la propria storia, che pone, mattone dopo mattone, i presupposti per l’esistenza continuamente in bilico di Judy Garland, facendo osservare non solo oltre il sipario per svelare il trucco del vecchio Oz, ma guardandone direttamente in faccia le restrizioni e le scorrettezze. Se, dunque, era l’abbaglio delle luci di scena ad accogliere il pubblico lungo il sentiero del film, anche quest’ultimo si rivela ingannevole rispetto alla continuazione di Judy. Quella fascinazione, quella ricostruzione degli studi della Metro Goldwyn Mayer, rimane superflua se abbinata alla composizione restante della pellicola, che invece di perseguire quel sogno voluto e rimasto incastonato nel tempo, sceglie la scrittura più facile, la regia più semplice, per un ritratto certamente efficace, ma canonico ed epidermico della pellicola.
Le potenzialità inespresse di Judy mancano dell’ambizione di rendere estasianti – proprio come estasianti sono state le performance e le qualità dell’attrice e cantante – le proprie scene. La loro ricostruzione, la maniera in cui vengono riempite le scenografie e inquadrati i luoghi dell’ultimo periodo della Garland; il racconto si accontenta della superficie degli eventi, del discreto allestimento del film, parlando di quella sorta di magia che avvolgeva Judy Garland, ma non dandone mai veramente prova, lasciando piuttosto alle parole il compito di esprimerla. Una convenzionalità che contrasta con l’immedesimazione di una Renée Zellweger che dà, invece, la propria scintilla alla protagonista, comprendendone in profondità i disturbi e i tormenti che l’hanno vessata in ogni singolo giorno della sua vita.
Portando nel personaggio la fragilità che già la caratterizzava, in un appoggiarsi alla propria esperienza e alla propria sensibilità per infonderla nella sua Judy, l’attrice non ne drammatizza gli espetti della vita e della sua carriera giunta ormai alla fine, ma ne rimarca lo spirito graffiante, sempre pronto a scoccare un’altra battuta con il suo arco. Ne riporta, certo, i traumi e le cedevolezze – sul palcoscenico e fuori – ma non ne tralascia il brio, la carica degli applaudi, l’infinito affetto che ha cercato di dare ai propri figli. Cantandone la sofferenza e assumendone le movenze fisiche, Renée Zellweger è, per il film, quello che rappresentavano i tacchi delle scarpette rosse di Dorothy: una maniera per far tornare Judy Garland a casa.
E così la tenda si abbassa, è il momento di spegnere le luci. Judy chiude la propria storia e lo fa ricollegandosi al suo principio, a quel mondo incantato che aspettava solo la giovane Garland, rimasta incastrata in uno star system da cui non si è potuta difendere. La strada di mattoni gialla è dimenticata, ora c’è solo un palco e un’interprete che siede sul bordo. E, strozzate nella gola, le parole di una canzone, unico modo per poter andare in altri posti, ma che finiscono per riportare Judy Garland sempre lì, ancora una volta oltre l’arcobaleno.
Martina Barone, Cinematographe.it, 23 Ottobre 2019
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