VENERDì 29 novembre 2019 ore 20.30 (Sala Lampertico) SABATO 30 novembre ore 21.00 (Sala Lampertico) DOMENICA 1° dicembre ore 16.00 (Sala Lampertico) ore 21.30 (Sala ODEON) |
PALMA D'ORO al MIGLIOR FILM |
Regia
Bong Joon Ho
Genere
DRAMMATICO
Durata
131'
Anno
2019
Produzione
YOUNG-HWAN JANG, KWAK SHIN-AE PER BARUNSON E&A, CJ ENTERTAINMENT
Cast
Song Kang-ho (Ki-Taek), Sun-Kyun Lee (Signor Park), Choi Woo-Sik (Ki-Woo), Hyae Jin Chang (Chung-Sook), Park So-Dam (Ki-Jung) |
Nella famiglia di Ki-taek sono tutti disoccupati e le ville dei ricchi sono per loro fonte di sostentamento finché sopraggiunge un incidente inaspettato.
Per quel che Bong Joon-ho mostra nel suo film, Palma d’oro 2019 a Cannes, Seul è una metropoli strutturata per piani come tante altre: per ogni vertice esiste una necessaria depressione, tanto più profonda quanto è alta la vetta che le corrisponde. Anche i livelli professionali, così come i ceti sociali, si definiscono in alto e basso. A dirla tutta ogni cosa di questo mondo è definibile in alto e basso, la differenza vera la fa il punto di vista di chi giudica ciò che sta sopra e ciò che sta sotto. E’ tutto relativo, direbbe qualcuno. Per Bong Joon-ho il suo nuovo film Parasite, in Concorso a Cannes 72, è “una commedia senza pagliacci e una tragedia senza cattivi”. Il regista coreano di Memories of Murder, Okja e Snowpiercer porta alle estreme conseguenze il concetto, l’identità e l’habitat familiare, volendone misurare la resistenza e, di più, isolare il precipitato: Parasite è un crash-test, giocato sul raddoppio, la sostituzione, la conquista e la truffa, di corpi, relazioni – sì, anche servo-padrone – e sentimenti.
Trama
Critica
Nel film non esistono piani intermedi, ma scale, e Parasite è pieno di scale, che preludono a salite, discese e altrettante cadute rovinose, le quali sono, di volta in volta, simboliche ma soprattutto politiche.
Così come sono simboliche le viste dalle case delle rispettive famiglie che popolano il film, ossia i due nuclei familiari (anzi tre) che si contendono il medesimo pezzetto di città.
Da un lato il sordido seminterrato che offre una visione lampante del degrado dei bassifondi cittadini, dall’altro il giardino curato, irrorato automaticamente, perfettamente fasullo, che si gode dalla veranda widescreen della casa dei ricchi, che invece abitano una simbolica acropoli. C’è un terzo livello ma senza panorama, perché non ha finestre.
Parasite è un film di guerra. Una guerra senza elmetti e divise, ma con molte armi che vanno dall’astuzia, alle pietre (una in particolare), alle lame affilate. E’ l’astuzia propria del parassita che le prova tutte per connettersi al wi-fi altrui, così come studia a fondo le regole imposte dai benestanti, ma non certo per sovvertirle. Costui non vuole la rivoluzione, ambisce alla sostituzione. Perché l’astuzia del parassita, di questo tipo di parassita, ruota attorno alla volontà di sfruttare le risorse del prossimo senza dare troppo nell’occhio, almeno in un primo tempo. Perché il piano (parola che ottiene qui un altro significato rispetto al sinonimo di livello) è un altro. Sempre che esista realmente una strategia tetragona che porti a un risultato finale.
La lotta di classe oggi pare una lotta di e tra ultracorpi, di replicanti che vogliono sostituirsi a chi sta sopra di loro, così come il manager prende elegantemente, e senza colpo ferire grazie al denaro, il posto della celebrità (in tal caso un archistar, segno dei tempi), ecco che quel che definiremmo sottoproletario prende il ruolo della servitù, ma una volta ottenuto fraudolentemente il posto di lavoro – con un vero piano (nel senso di strategia), ossia grazie a un sistema di truffe congegnate – ecco che mira a prendere il posto del manager, del padrone di casa. Merito di un capofamiglia spiantato che vive di espedienti, un po’ filosofo e un po’ psicologo, con moglie e figli altrettanto intelligenti e colmi di talenti, ma destinati a essere border-line: vittime di una (psico)patologia sociale.
I piani, ancora nel senso di livelli, esistono, e il censo pure. E così dal vertice si piomba nell’abisso, in pochi istanti, trascinati da un’acqua piovana che non lava perché si mescola alla fogna che trabocca, che sporca e che sostituisce la sempiterna puzza di povertà. Quest’ultima corrisponde talvolta a un odore di verdura ammuffita che disgusta le narici del padrone di turno, odore nel quale – pare impossibile – è secretata una dignità di classe, che riaffiora dal profondo nel peggiore dei modi. Al punto di non ritorno segue l’oblio. Eppure viaggia, sospeso nella notte, ogni notte, un messaggio cifrato che proviene dall’abisso, messaggio destinato a occhi che sanno leggerlo, occhi posti su un punto di vista rialzato. Così come rimane spazio per un ulteriore piano, quello del sogno, non-luogo dove poter ricostruire con quel poco che rimane, risparmiato dal diluvio universale.
Tutto il film ruota attorno a un oggetto che apre e chiude la vicenda. Oggetto che è simbolico finché smette di esserlo: nel mentre cambia destinazione d’uso: è regalo e arma, insignificante e fatale, ma è destinato a tornare da dove è venuto, lontano dalle mani dell’uomo, immerso nell’acqua, acqua di ruscello finalmente pulita, che lava, scorre come il tempo che, forse a badare ai sogni, sarà un domani non troppo lontano. Tempo di nuove riemersioni, di nuovi abbracci.
Denis Lotti per Filmstudio Odeon, 7 novembre 2019
Bong Joon-ho ha costruito una carriera sulla distorsione del fantastico, con affreschi plastici di larga scala come The Host, Snowpiercer e il recente Okja. A dispetto del titolo, però, in Parasite non ci sono creature, né immersioni nel soprannaturale: solo due famiglie, due case, e la brutale dissezione di una disuguaglianza di classe nella società tanto coreana quanto globale.
Le due case - letteralmente - raccontano la storia, con gli eventi sempre più tesi e rocamboleschi che vengono incorniciati da due finestre, ognuna con quattro pannelli. La prima è una minuscola apertura ribassata su un vicolo, che lascia entrare rumori, disturbi e disinfestazioni nel salotto dei protagonisti, già impegnati a contorcersi nelle poche stanze disponibili alla ricerca di una connessione WiFi priva di password nei paraggi. La seconda è una gigantesca vetrata a parete nella villa dei Park, che "inquadra" l'ampio giardino teatro di un climax a orologeria, e invita lo sguardo esterno, d'invidia e di indagine.
Nell'era delle fratture sociali sempre più scomposte, Parasite è un'eccellente lettura del suo tempo, che Bong Joon-ho riposiziona nel verticale delle stratificazioni domestiche dopo averlo disteso sull'orizzontalità del treno in Snowpiercer. Alla fotografia, vivida e fluida nello sfruttare i volumi architettonici, c'è Hong Kyung-po, reduce dal fenomenale lavoro su Burning, che della lotta di classe faceva uno sfondo elegante laddove Parasite la erge ad allegoria principale. E come studio delle idiosincrasie familiari, Bong Joon-ho riesce a entrare nel pieno territorio del primo Lanthimos e dell'ultimo Peele.
Nonostante il film "cambi stanza" con agilità tra un genere e l'altro (come sempre in Bong Joon-ho), alternando commedia, tensione e puro dramma, i Park non sono una semplice caricatura di ricca ottusità (con le ripetute fascinazioni americane e il freddo concetto di una "linea" che non va oltrepassata), così come Ki-taek (interpretato dal solito Song Kang-ho) e la sua famiglia oscillano tra l'iniziale versione coreana degli Shoplifters di Kore-eda e una sempre più dark discesa nella tentazione.
In questo heist movie al contrario, il cui obiettivo è impreziosire se stessi invece di impossessarsi di un oggetto prezioso, Bong Joon-ho ritorna alla sua forma migliore, con un'incisività che Okja non aveva e una chiarezza d'intenti che rimanda ai suoi primi e meno elaborati titoli. I soldi sono un ferro da stiro che elimina tutte le pieghe, avverte Chung-sook, mamma dal pragmatismo d'assalto. Essere una brava persona non è che l'ennesimo lusso di una lunga serie, secondo il regista, che come di consueto ammanta la sua parabola di espiazione capitalistica in immagini che attingono al livello più profondo della psiche umana: un'inondazione che arriva improvvisa, densa e scura, a lambire lo spazio vitale di chi non ha molto. E dei fantasmi del regno domestico, che emergono dalle cantine e che portano anch'essi, secondo il proverbio, la ricchezza assieme allo spavento.
Tommaso Tocci, Mymovies.it, 23 maggio 2019
Bong chiede esplicitamente di non spoilerare, anzi, di non dire quasi nulla, e lo accontentiamo, basti dire che la famiglia di Ki-taek, lui, moglie, figlio e figlia vive in un seminterrato con vista marciapiede – e le pisciate degli ubriachi – e fa fronte a un poker di disoccupazione: il futuro è incerto, se non miserabile.
I quattro sono uniti, affiatati, amorevoli, sebbene in quella convivenza forzata e prostrata incubino forse i germi della violenza e della dissoluzione, però la svolta è vicina: il figlio Ki-woo è raccomandato da un suo amico, studente in un'università prestigiosa, per un tutoraggio a domicilio ben retribuito. Ki-woo conosce Mr. Park, proprietario di un’azienda di IT, e la sua ingenua sposa Yeon-kyo, viene assunto e decide di non fermarsi lì: non potrebbero trovare impiego anche i suoi familiari?
Commedia per virtù e tragedia per necessità, Parasite è conflitto sociale, sconto di classe e guerra tra poveri, senza darne – troppo – adito: si sorride, si ride, si rimane di stucco, ma a non trovare soluzione di continuità è l’ineluttabilità, la meccanicità, l’inesorabilità di vite, morti e – sparuti – miracoli.
Le affinità tematiche, e financo ideologiche, con la Palma d’Oro di Kore-eda Hirokazu dell’anno scorso, Affari di famiglia, si sprecano, però Parasite si ritaglia spazi di manovra da operetta morale, pamphlet sociale, distopia multifamiliare.
Non tutto funziona, una sforbiciata alle oltre due ore avrebbe giovato, la drammaturgia qui e là perde colpi, ma Parasite è una discreto “Gruppo di famiglia in interno altrui”.
Federico Pontiggia, Cinematografo.it, 22 Maggio 2019
Bong Joon Ho
Nato il 14 Settembre 1969 a Daegu (Corea del sud). Studia regia alla Korean Academy of Film Arts. Nel 1998 scrive la sceneggiatura del film di Chun Min-byung intitolato Yuryeong (Phantom: the Submarine). Nel 2000 realizza Flandersui gae (Barking Dogs Never Bite), il suo primo lungometraggio.
Courtesy of TFF
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