SABATO 26 ottobre 2019 ore 20.30 (Sala Lampertico) DOMENICA 27 ottobre ore 20.30 (Sala Lampertico) (Tutti gli spettaoli saranno in V.O. con sottotitoli in italiano) |
Regia
Phuttiphong Aroonpheng
Genere
DRAMMATICO
Durata
105'
Anno
2018
Produzione
MAI MEKSAWAN, PHILIPPE AVRIL, JAKRAWAL NILTHAMRONG, CHATCHAI CHAIYON PER DIVERSION, LES FILMS DE L'ETRANGER, IN CO-PRODUZIONE CON YOUKU PICTURES, PURIN PICTURES
Cast
Wanlop Rungkamjad (Pescatore), Rasmee Wayrana (Saijai), Aphisit Hama (Thongchai) |
Un pescatore trova un uomo ferito e privo di sensi in una foresta situata nei pressi di un villaggio sulla costa tailandese, dove sono annegati migliaia di rifugiati Rohingya. Dopo aver messo in salvo lo straniero, che non dice una parola, il pescatore gli offre la sua amicizia e lo chiama Thongchai. Poi, improvvisamente, il pescatore scompare in mare e Thongchai inizia lentamente a impadronirsi della vita dell'uomo, della sua casa, del suo lavoro e della sua ex-moglie...
Phuttiphong Aroonpheng viene dalla Thailandia, ha studiato belle arti a Bangkok e cinema a New York. Un percorso tra arti visive e immagini in movimento che trova uno sbocco ideale in Manta Ray, fulminante apologo sul senso profondo del sopravvivere raccontato attraverso inquadrature fisse e lunghe silenziose sequenze che sembrano quadri. Il cinema di riferimento è quello sospeso di Apichatpong Weerasethskul, che però il giovane autore rilegge in maniera personale e senza esserne minimamente schiacciato. Le grandi foreste della Tailandia, verdi e lussureggianti, oscure e penetrate dalla luce, abitate da bestie selvagge e creature fantastiche, echeggianti di suoni inquietanti e di voci divine, nutrono il film di Phuttiphong Aroonpheng e costituiscono il suo décor principale. Manta Ray è un film che orbita attorno al rapporto tra un pescatore e un migrante muto che viene salvato da morte certa. Aroonpheng fotografa il dramma dei rifugiati Rohingya, dei loro corpi inascoltati ed ignorati che annegano nel mare della Thailandia, lasciando solo supporre che sia questa la storia di cui si sta occupando: l’uomo che viene salvato è dichiaratamente un uomo senza identità ma, considerato il contesto, possiamo asserire che si tratti un rifugiato dei Rohingya, la cui storia è stata in qualche modo seppellita. Ed è per questo che il regista lascia che il migrante nel film non parli, perché rappresenta un popolo la cui voce non è stata mai ascoltata.
Sceneggiatura: Phuttiphong AroonphengTrama
Critica
In un villaggio vicino al mare in cui sono annegati migliaia di rifugiati Rohingya, un pescatore trova uno sconosciuto privo di memoria che in più non parla la sua lingua. L’uomo lo accoglie in casa e gli da un nome, Thonchai. Quando il pescatore un giorno, all’improvviso e misteriosamente, scompare Thonchai lentamente si impadronisce della sua identità, del lavoro e persino della moglie giunta in visita da un paese lontano.
Chi sono gli sconosciuti che bussano alle nostre porte? In occidente come in oriente, popolazioni senza voce abbandonano le proprie terre in cerca di lavoro, cibo, sicurezza e spesso lo fanno perché perseguitati. Milioni di esseri umani senza volto né nome cui spesso viene persino negato il diritto di parola. E se non si può raccontare la propria storia è come cancellare per sempre la memoria del proprio passaggio sulla terra.
Aroonpheng si fa carico di far voce ai rifugiati nel mondo, ma soprattutto ricorda il popolo Rohingya perseguitato in Birmania e costretto ad avventurarsi in mare in cerca di salvezza. Un viaggio della speranza segnato il più delle volte dalla morte per annegamento, destino comune e crudele ad ogni latitudine.
Se il messaggio è diretto, non lo è affatto il linguaggio scelto dal regista per raccontarlo, egli infatti preferisce affidandarlo al filtro della poesia.
Manta Ray è un film che lavora per sottrazione, si affida a impercettibili snodi narrativi, conta su suoni e luci, suggerisce sottovoce piuttosto di urlare. Un’opera visivamente affascinante, luminosa, sfuggente, rarefatta eppure incisiva come un poema. Un esordio clamoroso. Una vera scoperta.
Greta Leo, Cinematografo.it, 8 Settembre 2018
Contrappunto alla città, come nel cinema magico di Apichatpong Weerasethakul, la giungla per il giovane autore è il regno dei sogni e dei fantasmi, il tempio segreto di forze invisibili, il terreno fertile del suo immaginario. E ancora. In Manta Ray diventa il motore che regola la circolazione tra il regno dei vivi e dei morti, tra l'umano e l'animale, tra l'ombra e la luce. Niente di quello che vediamo sembra scappare al suo filtro creando mondi nuovi e alternativi. Tra questi mondi si muovono i due protagonisti, in un eterno alternarsi di ruoli e di riattivazione delle memorie. Due uomini che sono uno solo dentro notti di veglia e fluorescenza, che dona al film l'allure di un'installazione d'arte contemporanea.
Trip dispensatore di languori e melodie, Manta Ray invita al viaggio e al cuore di una notte tropicale rifulgente di luci dell'altro mondo. Luminarie dai cromatismi cangianti che procurano un effetto fisico che passa da una sensualità inusitata a una potenza zen incomparabile. Ma allo stesso tempo Manta Ray è anche mentale e politico, in presa diretta con la realtà del suo paese. Phuttiphong Aroonpheng, regista sciamano, sa incantare il reale al contatto con un immaginario libero e ipnotico. Combinando voluttà, desiderio, piaga, consunzione, macerazione dei corpi e trasmigrazione delle anime, Manta Ray pesca sotto i rami e i crepitii della giungla un distillato splendido di misteri, inscritti nella cultura nazionale e nelle leggende popolari.
A misura della tristezza, della collera e della profondità meditativa dei suoi protagonisti, il film cresce in bellezza e in una foresta che si fa paesaggio mentale, culla dell'anima. Di due anime riunite in una sola e dentro un mondo che non è che un'immagine transitoria, che alimenta altre immagini, altri racconti, altre vite. Tra primitivismo e sofisticazione estetica, Manta Ray inventa un sonnambulismo in piena luce e a cielo aperto. Un cinema radicale, un pianeta a sé, senza GPS, senza spiegazioni né direttive ma con una grande fiducia nello spettatore.
Marzia Gandolfi, Mymovies.it, 7 settembre 2018
Manta Ray è un film dedicato alla minoranza etnica apolide dei Rohingya; il regista, negando la voce al personaggio chiave, sottolinea con grande intelligenza il senso di impotenza vissuto da questa gente, comunemente indicata come la più perseguitata sulla Terra, soprattutto quando è in cerca della propria autodeterminazione.
Il personaggio di Thongchai è interpretato in modo sublime dall’attore Aphisit Hama, che offre una performance potente, che rende efficacemente la purezza, la genuinità, la paura e le speranza solo con il proprio volto. Thongchai viene letteralmente riportato in vita dal pescatore: l’amicizia e il calore che riceve si sovrappongono alla stessa sofferenza che prova per la sua assenza. Thongchai è sia ospite che padrone, un uomo senza identità a cui viene donato un nome e questa dualità è resa in modo puntuale e commovente dall’attore. Il lirismo visivo del regista rimanda spesso alla spiritualità, alla presenza dei rifugiati come luci nella foresta: le luci fluttuanti che sorgono spesso nei luoghi più impensabili nel film alludono a questo, all’energia vitale di moltissimi uomini e donne che sono scivolati nell’ombra e nell’oscurità degli abissi.
Manta Ray è un film politico, fortemente schierato, che trascende ogni tematica attuale per cogliere l’intrinseca solitudine dei rifugiati. Il film del regista vietnamita permea ogni implicazione possibile che prende vita nella concezione di identità e nell’idea di confine, sfumando il dramma personale con la complessità sociale e globale dei migranti. Eppure, nonostante la tematica plumbea, riesce ad essere al tempo stesso una festa visiva, una sorprendente tavolozza di colori, di luci: Manta Ray è guidato da immagini e suoni astratti, ha uno stile visivo davvero particolare che si contrappone con scene dal realismo più ruvido, che rievocano la vita dei rifugiati e il loro desiderio di unione e di comprensione.
Lucia Tedesco, Cinematographe.it, 10 Settembre 2018Altre informazioni
Fotografia: Nawarophaat Rungphiboonsophit
Musiche: Snowdrops (Christine Ott), Snowdrops (Mathieu Gabry)
Montaggio: Harin Paesongthai, Lee Chatametikool
Scenografia: Sarawut Karwnamyen
Costumi: Chatchai Chaiyon
Effetti: Achawin Chayarattanasilp
Altri titoli: Diable de Mer
credits: