GIOVEDì 6 giugno 2019 ore 21.00 (Sala Lampertico) VENERDì 7, SABATO 8 e DOMENICA 9 giugno ore 16 - 18.30 - 21 (Sala ODEON) Lo spettacolo di SABATO alle 18.30 sarà in lingua originale con sottotitoli in italiano |
Regia
Louis Garrel
Genere
COMMEDIA, ROMANTICO
Durata
75'
Anno
2018
Produzione
PASCAL CAUCHETEUX, GRÉGOIRE SORLAT PER WHY NOT PRODUCTIONS
Cast
Laetitia Casta (Marianne), Lily-Rose Melody Depp (Eve), Joseph Engel (Joseph), Louis Garrel (Abel) |
Otto anni dopo essersi lasciati, Abel e Marianne si ritrovano al funerale di Paul, il miglior amico di lui. Questo tragico evento si rivela in realtà di buon auspicio: Abel e Marianne tornano insieme. Così facendo, però, suscitano la gelosia di Joseph, il figlio di Marianne, e soprattutto di Eve, la sorella di Paul da sempre segretamente innamorata di Abel.
Dal classico ménage à trois Louis Garrel si apre a nuove forme nella sua opera seconda. Abbandonato il triangolo di Les Deux Amis, l’attore francese, figlio d’arte, consacrato al pubblico dal compianto Bernardo Bertolucci, aggiunge l’amore filiale e non solo (due donne e due uomini, di cui uno non si vede mai sullo schermo) in questa commedia leggera che parte con un incipit che è già una fine. La densità del nuovo film di Louis Garrel impressiona quanto il suo debutto. Accadono più cose ne L'uomo fedele che in un polpettone di tre ore. Riannoda i fili con la memoria del cinema francese, L’uomo fedele, e lo fa a partire da quella prima inquadratura sullo skyline parigino dominato dalla torre Eiffel, che rimanda nella mente del cinefilo di stretta osservanza le immagini dell’incipit di Baci rubati, subito dopo la dichiarazione di partigianeria culturale di François Truffaut a favore di Henri Langlois. Altri tempi, vissuti con battagliera caparbietà. Vive invece completamente nel suo tempo Louis Garrel, e la sua nuova incursione dietro la macchina da presa – la seconda, dopo Les deux amis nel 2015 – lo dimostra in maniera lampante; eppure c’è uno spettro che si aggira in questo breve e a suo modo prezioso film. Una figura ectoplasmatica, come dopotutto fu lo stesso attore e regista per suo padre Philippe nello splendido e largamente bistrattato La frontière de l’aube. Tra le pieghe de L’uomo fedele si ritrova infatti lo spettro della Nouvelle Vague, non tanto nelle sue escoriazioni linguistiche quanto nell’habitus, nella struttura portante di un discorso capillare e a suo modo disperato sulla prassi sociale borghese, e sulla predilezione dell’essere umano occidentale a costruirsi gabbie attorno e indosso. Una disperazione che si muove a passo di minuetto su un terreno leggiadro, in cui è di fatto la commedia a smussare gli angoli e a sfumare i contorni. Spetta alla commedia, genere teatrale, letterario e cinematografico, tenere le redini di un’umanità sbandata, un po’ vacua, incapace di prendere qualsiasi cosa sul serio e allo stesso tempo bruciante nel desiderio (inespresso) di vivere l’assoluto.
Trama
Critica
Dopo anni di fidanzamento e convivenza Marianne (Laetitia Casta) lascia Abel (Louis Garrel) perché aspetta un figlio da Paul, il migliore amico di Abel. Niente lacrime, nessuna scenata, nessuna resistenza, solo una caduta per le scale e la realizzazione che è finita: deve andarsene di casa perché lei vuole sposare l’altro. Sono passati solo cinque minuti dall’inizio del film e già è successo di tutto senza che vedessimo nulla.
Ellissi temporale. Nove anni dopo. I due si rincontrano al funerale di Paul. Tornano insieme. Ma non tutto va liscio perché Joseph, il figlio di Marianne e Paul, è geloso e insinua il dubbio in Abel che l’angelica Marianne abbia avvelenato il padre e Eve (Lily-Rose Depp), la sorella di Paul, da sempre innamorata dell’amico del fratello, ora lo vuole a tutti i costi.
Con il tocco delicato di Garrel e con lo spirito distaccato, lucido e sottile di Jean-Claude Carrière (la sceneggiatura è scritta a quattro mani) questa commedia indaga i dubbi dei nostri sentimenti e il grande enigma dell’amore.
Strizza l’occhio ai film del maestro della suspense Hitchcock e si incasella (anche se i dubbi dei personaggi sono espressi dalla voce fuori campo) nel filone della commedia francese tutta basata sui dialoghi. Come nel recente bellissimo film di Olivier Assayas Il gioco delle coppie, che mostrava quelle doppie vite (Doubles Vies dal titolo originale assai più azzeccato), coniugali ed extra, dell’umanità contemporanea, anche qui regna il doppio.
Vita e morte, eros e thanatos, visibile e invisibile (emblematica la figura di Paul, una presenza-assenza che percepiamo in ogni singola scena del film senza mai vedere), desiderio e sazietà, fedeltà e infedeltà, donna angelica e assassina, dis-velamento e occultamento, legami di sangue e non, familiarità ed estraneità si intrecciano in uno scambio continuo nel corso della storia.
Alla fine quello di Garrel è un uomo fedele sì al suo passato (come lui lo è alla Nouvelle Vague, in primis a Eric Rohmer, in senso artistico), ma soprattutto è un uomo spaesato, guidato dall’incostanza e al contempo dalla perseveranza delle donne. Quello spaesamento ci riporta anche al concetto di perturbante descritto da Freud come un sentimento di angoscia che si sviluppa quando una cosa (una persona o un fatto) viene avvertita come familiare e al tempo stesso come estranea. E, andando ancora più in là, al filosofo Merleau-Ponty e al suo volume postumo Il visibile e l’invisibile (1964).
Insomma, nella sua brevità (dura solo 75 minuti) c’è tanto, persino la filosofia e la psicoanalisi. Pesante? No, al contrario, cattura proprio per la sua semplicità e per la sua leggerezza.
Giulia Lucchini, Cinematografo.it, aprile 2019
Una donna annuncia al suo compagno una novità in tre tempi: è incinta, non è lui il padre e sta per sposare il padre del suo bambino. Cacciato dal paradiso della prima giovinezza, lui fa la valigia e se ne va senza drammi, pianti, imprecazioni. Ellissi di nove anni. Lui e lei si ritrovano al funerale dell'altro e tornano insieme sotto gli occhi di un'altra che vuole lui. Tre minuti sono passati dall'inizio del film. Un esordio folgorante, una scena di rottura mai vista.
La narrazione procede spedita, intelligentemente sostenuta dalla triplice voce off che ci lascia ascoltare le emozioni profonde dei personaggi e la loro presa di coscienza sulla natura dei propri sentimenti. Poi rallenta, progressivamente, varia il tempo e introduce due variabili al triangolo. Abel vuole riconquistare Marianne, Marianne vuole essere riconquistata ma Ève, sorella di Paul vuole Abel da quando era adolescente. È la guerra eppure tutto resta tranquillo. Perché il seguito avrà lo spirito beffardo del prologo mescolato a un genere a priori incompatibile: il film a suspense hitchcockiano.
Dopo Le deux amis, opera prima che riprendeva la configurazione sentimentale francese per eccellenza, L'uomo fedele contempla il rettangolo: due donne e due uomini, di cui Paul, deceduto e mai mostrato, è presenza costante in ogni discussione. All'equazione si aggiunge l'enfant demiurgo, personaggio centrale e rivelazione capricciosa che scompiglia e sovverte le certezze degli adulti. Manipolatore e visibilmente afflitto, introduce il sospetto e partecipa attivamente a ordinare e risolvere i termini di un'equazione che condurrà all'immagine finale di una famiglia ricomposta.
Attraverso il bambino, che come gli adulti ha tanto da dire e da nascondere, Louis Garrel esplora la relazione genitore-figlio, i legami di sangue e quelli elettivi. Col tema della filiazione, il figlio di Philippe Garrel si iscrive nella storia del cinema e si diverte a evocare, per poi dirottare, tutti i padri della Nouvelle Vague, da Truffaut (Domicile conjugal) a Chabrol (La femme infidèle). La fedeltà del titolo è da intendersi anche in senso artistico. Louis Garrel assume l'eredità materiale e affettiva della celebre onda senza caricare il film del suo peso. Fedele ma leggero fa fruttare la lezione dei padri e sposta più in là il movimento sentimentale.
Come Doinel, Garrel si declina di film in film (era Abel anche in Le deux amis), riarrangiando la sintassi amorosa e i fondamentali del cinema francese. Date le figure très usées, Louis Garrel e Jean-Claude Carrière scrivono un 'thriller sentimentale' che non alza mai i toni e dove ogni scena è una sorpresa. I personaggi patiscono il proprio dolore senza reagire mai come lo spettatore si aspetta. Come se una forza più grande tenesse dritta la barra della loro vita e li puntellasse a quei nomi archetipici: Abel, Marianne, Ève.
Nell'universo garelliano ci si lascia come ci si ama, senza strepiti né singulti. Se i personaggi sono tristi, le loro lacrime sono discrete, quasi impercettibili. Se le donne non sono mai vittime dell'indecisione o della passività maschile, che al contrario orchestrano, gli uomini sono sempre innamorati delle donne e fedeli a una sola. Sono le donne a possedere l'alcova, a provocare l'azione, a dichiarare guerra, a decidere. Abel è un amante passivo, né attore né agente, che preferisce assecondare l'incostanza femminile piuttosto che scegliere. Voce off, racconto al passato prossimo, dolcevita, minigonna, Tour Eiffel, Parigi deserta, refrain di Philippe Sarde già inteso altrove, tutto nel film è (fintamente) desueto, una maschera che nasconde il nostro presente e la brutalità delle emozioni. L'uomo fedele è una storia di oggi e una storia di sempre. È il mai due senza senza tre o magari quattro, e non saranno certo Jules e Jim a smentirlo.
Marzia Gandolfi, Mymovies.it, 11 marzo 2019
Parte da qui, e da questa trista riflessione sull’inanità dell’umano esistere, il racconto ordito da Garrel in fase di sceneggiatura insieme a Jean-Claude Carrière (classe 1931, una carriera dominata dalla frequentazione artistica con Luis Buñuel ma proseguita anche con Marco Ferreri, Milos Forman, Jacques Deray, Jesús Franco, Jean-Luc Godard, Nagisa Ōshima, e ovviamente Philippe Garrel…). Abel vive con Marianne e la ama, apparentemente riamato a sua volta. Marianne però lo informa che è incinta del migliore amico di lui, Paul, e che ha intenzione di sposarlo. Abel accetta senza battere ciglio, lascia l’appartamento e lascia Marianne, proprio nel periodo in cui sta iniziando a lavorare come giornalista televisivo e “la giovinezza si allontanava poco a poco”. Passano otto anni, e Paul muore una notte, nel sonno. Forse un colpo apoplettico. Al funerale Abel ritrova Marianne, e tornano a vivere insieme nonostante questo faccia ben poco felice il figlio di lei, che per di più ritiene che sua madre abbia avvelenato il padre simulando una morte naturale. C’è un ulteriore ostacolo: Ève, la sorella minore di Paul, è innamorata di Abel fin da quando era poco più di una bambina, e ora ha intenzione di scatenare una guerra d’amorosi sensi per accaparrarselo…
All’apparenza il film può apparire come il più classico dei triangoli sentimentali, nel solco di una tradizione che proprio in Francia ha trovato alcuni dei suoi cantori maggiormente sensibili. Garrel e Carrière arrivano addirittura a suddividere il punto di vista sulla vicenda in modo tripartito, affidando alle voci narranti di Abel, Marianne ed Ève lo sviluppo tanto narrativo quanto emotivo e psicologico. Ma a ben vedere si può scorgere come si tratti di un triangolo scaleno, del tutto sproporzionato e privo di un reale equilibrio interno. Se il frammento di film che mette al centro il personaggio di Ève può apparire sbrigativo è perché in effetti occupa una porzione di tempo e di spazio residuale. Il punto, e il finale saprà sottolinearlo con cura, è che sono quattro le voci perennemente in scena, anche se una è stata ridotta in silenzio dal corso degli eventi.
Paul è infatti un personaggio a tutti gli effetti, anche se non appare nemmeno in foto e non ha diritto alla voce interiore. Sepolto sotto qualche vangata di terra, Paul è il rimosso perpetuo, quello cui tutti fanno riferimento anche senza citarlo in maniera esplicita. È lui, l’uomo che rubò Marianne ad Abel e allo stesso tempo – qui in modo del tutto inconsapevole – contribuì all’ossessione di Ève per l’amico, a tenere le redini del discorso. Gli altri tre si aggirano in scena, alla ricerca di una scintilla di vita che confermi loro di non aver perso tutto. Perché il terrore di ognuno dei personaggi, perfino della sicura, schizoide e ai limiti della perfidia Marianne, è quello di agire senza un senso, di non essere parte del consesso sociale, di muoversi al di fuori di una prassi che comunque non arrivano a comprendere. Si comportano come le regole della Parigi bo-bo dettano, i protagonisti de L’uomo fedele, e non sanno uscire dagli schemi. Non vogliono uscire da schemi che sulla carta credono di non perpetrare. Nella supposta libertà raggiunta, che li spinge ad accettare anche la più ferale delle notizie con nonchalance, si annida il vuoto di un’esistenza fuggevole e in fin dei conti mediocre.
Nel mettere in scena questa tragedia per tre personaggi Garrel sceglie la commedia, e tinteggia di ironia ogni singola situazione, lavorando con sottile intelligenza sugli spazi – l’angusto appartamentino di Ève, che per paradosso di lavoro fa l’agente immobiliare – e sui tempi, di silenzio e di battuta. Il suo film guarda con insistenza dalle parti del padre, e forse non potrebbe essere altrimenti. Ma se il dono della brevità e l’asciuttezza dell’esposizione sembrano arrivare direttamente per linea filogenetica, la messa in scena del giovanissimo Joseph – il figlio di Marianne e Paul – e la volontà di trovare una nuova vicinanza con i personaggi, testimoniata da quegli eleganti zoom che sovente annullano lo spazio con gli attori, appartengono anche all’armamentario poetico di Truffaut.
Raffaele Meale, Quinlan.it, 10 aprile 2019
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