SABATO 25 maggio |
Regia
Jeremiah Zagar
Genere
DRAMMATICO
Durata
94'
Anno
2018
Produzione
ANDREW GOLDMAN, CHRISTINA D. KING, PAUL MEZEY, JEREMY YACHES PER CINEREACH, PUBLIC RECORD
Cast
Raúl Castillo (Paps), Josiah Gabriel (Joel), Terry Holland (Telepredicatore), Isaiah Kristian (Manny), Evan Rosado (Jonah), Sheila Vand (Ma) |
La storia della schiavitù di tre fratelli, come si sono mantenuti uniti quando erano giovani e come sono diventati personalità indipendenti quando sono cresciuti, tra turbolenze, fame e abbandono...
Zagar vincitore nel 2009 del Biografilm Festival con il documentario, nonché opera prima, Into a Dream, dopo l'ottimo riscontro ottenuto dalla critica al Sundance Film Festival presenta all'edizione 2018 del Biografilm il suo secondo lungometraggio di finzione. Il film è la storia di un ricordo e in qualche modo ci dice che noi ricordiamo anche attraverso i media con cui siamo entrati in contatto, ne siamo influenzati. Una vera altalena di emozioni e lacrime, paesaggi mozzafiato che passano dalla luce estiva al candore della neve, esaltati da una fotografia densa e materica, dalle tinte sature, tra albe e tramonti e una luce netta ma soffusa che avvolge e accarezza lo sguardo dei bambini. Il problema, in un film studiato con estrema cura, con storyboard di tutte le sequenze e una preparazione durata ben cinque anni, è la necessità di rendere visibile la voce interiore del protagonista, con scelte che finiscono per sovraccaricarlo, conferendo alla sua struttura una certa meccanica ripetitività. Per trasporre sullo schermo i capitoli di vita vissuta, scanditi con un ritmo costante dallo stile dello scrittore, Zagar ricorre alle bellissime animazioni di Mark Samsonovich, che danno vita ai disegni del piccolo e rappresentano la sua percezione dell'amore, del sesso e della violenza fatti di fuoco, sangue e liquido amniotico, e ne diventano l'Ombra, con cui si alza in volo sopra un mondo infinito che - per chi è in cerca di identità - sembra irraggiungibile. Il diario - che nel romanzo si scopre (viene scoperto) solo alla fine - è il deflagratore del conflitto, ma l'insistenza di Zagar sulle sequenze relative finisce per smorzare il senso di meraviglia che proviamo all'inizio.
Soggetto: Justin Torres – (libro)Trama
Critica
Il regista è legato ai ricordi dei video 35mm o 16mm, in technicolor, mentre ora è tutto pulito, nitido, digitale. We the Animals invece è girato in pellicola 16mm, che con la sua grana spessa conferisce all'ottima fotografia un senso materico e di calore alle bellissime tinte delle albe, dei tramonti o della luce del sole che filtra dalle finestre e solca in maniera delicata i visi dei bambini. Questa luce suggestiva e avvolgente, insieme al lirismo dilagante e all'intimità (i sussurri, il ricorso frequente ai primi piani) che pervadono il racconto, così come i movimenti di macchina liberi e sinuosi, avvicinano questo film allo stile etereo di Terrence Malick.
Il lungometraggio è realizzato con una tecnica mista: riprese dal vero che si alternano a sequenze di animazione, nello stile delle riprese a passo uno. Ovvero, disegni su carta fotocopiati e ripetuti per circa 6500 disegni. Con la camera a spalla, Zagar riprende spesso in mezzo alla scena, fra i personaggi. C'è una forte empatia, quasi partecipazione, immedesimazione. La macchina da presa è sempre in mezzo. Non li perde mai di vista. Addirittura, rompe i confini della diegesi cinematografica e viene afferrata da uno dei bambini.
La vitalità e la creatività sono al centro di questo racconto sul rapporto fra crescita e sofferenza. Il piccolo Jonah ne è il principale portavoce: l'arte spesso è adoperata da lui come valvola di sfogo, come luogo in cui nascondersi, unico momento in cui sentirsi veramente liberi.
I bambini sono sorprendentemente attori non professionisti e le scene sono spesso frutto di improvvisazione, senza dialoghi scritti e affidate alla loro irresistibile spontaneità. La natura li sovrasta continuamente, a partire dalla vegetazione dei campi e delle fitte chiome degli alberi che si stagliano dietro alle loro teste, fino alla presenza dell'acqua, elemento molto importante perché associato al distacco da sé stessi e paradossalmente anche quello di riconciliazione con sé, momento di sospensione per eccellenza. Nuotare è un po' come volare. Zagar dimostra una capacità fuori dal comune nel costruire un racconto così autentico e così pieno di vita sull'infanzia riuscendo in maniera molto delicata - ma schietta - a introdurre il tema della scoperta in tenera età della propria sessualità.
Tommaso Moscati, Mymovies.it, 30 giugno 2018
Un lirismo imperante, accentuato dal taglio delle riprese, intimo nel soffermarsi sulle espressioni, cogliendo le sfumature attraverso primi piani intensi incorniciati dalla purezza del silenzio e dalla natura, in un afflato etereo che ricorda il primo Terrence Malick.
Il lungometraggio alterna riprese dal vero a sequenze animate dei disegni dal vero di Jonah, immagini in libertà che riportano alla mente gli schizzi inquietanti di "Butterfly Effect", in un binomio di evoluzione e sofferenza.
Jeremiah Zagar costruisce un flusso immaginario di energia che lega armonicamente pulsioni dell'età adolescenziale ed elementi della natura, aria e acqua su tutti, dove nuotare è come volare e una stanza colma di soli materiali di scarto e scatoloni si trasforma nella reggia del gioco, come una fiaba d'altri tempi.
Tre fanciulli che vivono allo stato brado, legati a doppio giro di vite con la natura e l'acqua del torrente che scorre dietro casa, ragazzi che crescono differentemente, Manny e Joel simili al padre, piccoli teppisti in erba dai modi violenti e Jonah, legato alla madre, dai modi eterei e femminili ed immerso nel suo mondo immaginario.
Una scena cardine, Jonah e sua madre che quasi annegano nel torrente, nel tentativo violento del padre di insegnare loro a nuotare, un ricordo ricorrente per Jonah, dominato dall'acqua, simbolo della sessualità, l'acqua in cui si nasce e l'acqua che corre come le ali nel cielo.
Una storia potente, dalle musiche quasi inesistenti e sottili, ma dai rumori che avanzano di pari passo con le scene in un ritmo che sfiora l'anima.
Una tenda come rifugio che costruisce lo spazio per la creatività, per incidere le scene di vita quotidiana, ricordare e chiudersi in se stessi fino a trovare la propria strada, una strada speciale, quella di Jonah, da percorrere in solitaria, incompreso e osteggiato dai fratelli, ma vero, perchè come diceva Platone "Un ragazzo è, di tutte le bestie selvagge, la più difficile da trattare"
Chiaretta Migliani Cavina, Ecodelcinema. Com, maggio 2019
Girato in 16 millimetri, denso di metafore e immagini poetiche e interpretato con impressionante credibilità dai tre giovani non attori e dai loro genitori nel film, Raul Castillo e Sheila Vand (la protagonista di A Girl Walks Home Alone At Night), Quando eravamo fratelli soffre a nostro avviso dei difetti che affliggono molto cinema indipendente americano: un eccesso di intellettualismo e un sospetto di artificiosità che ci impedisce di sentirci coinvolti fino in fondo in quello che vediamo e che, al di là dello stile, altro non è che un bildungsroman, o romanzo di formazione, che abbiamo già visto e letto tante volte, nonostante l'astrazione gli conferisca accenti da realismo magico.
Qualcuno ha azzardato paragoni per noi incomprensibili con The Tree of Life di Terrence Malick. Può anche darsi che ci siano le stesse ambizioni alla base dei due film, ma Zagar è decisamente ancora lontano dalla visione filosofica e dalla sapienza cinematografica del grande regista americano.
Daniela Catelli, Comingsoon.it, 9 maggio 2019Altre informazioni
Sceneggiatura: Daniel Kitrosser, Jeremiah Zagar
Fotografia: Zak Mulligan
Musiche: Nick Zammuto
Montaggio: Keiko Deguchi, Brian A. Kates
Scenografia: Katie Hickman
Tratto da: libro omonimo di Justin Torres
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