Critica
Sarah (Sivane Kretchner) è moglie di un ufficiale dell’esercito israeliano e gestisce un bar a Gerusalemme. A fare le consegne, sempre puntuale, Saleem (Adeeb Safadi), fattorino arabo in ristrettezze economiche, ingaggiato dall’intelligence palestinese per recapitare risorse, di notte e in gran segreto. Tra i due, quando interviene la pellicola, è già in corso da tempo un’intensa relazione di sesso fedifrago (anche lui è sposato, per giunta con un figlio in arrivo), alimentata dal brivido di un duplice tabù.
Non bisogna scambiare Sarah e Saleem per un (ennesimo) Romeo e Giulietta calato nell’attualità. I due protagonisti, evidenziati da interpretazioni profonde, mostrano un’enorme umiltà di desideri. Non vogliono molto più, l’uno dall’altra, di affetto e complicità, cose che non trovano più all’interno dei rispettivi matrimoni.
Il film sorprende per eleganza e precisione: dopo un breve parabolico flash forward, ci presenta la vicenda per ciò che è, nuda e cruda. Un piccolo imprevisto mette in moto una serie di eventi che, stavolta sì, dipingeranno gli incontri di Sarah e Saleem come frutto di intrighi politici e spionaggio militare, da una parte e dall’altra. Ma il pubblico conosce la verità: non c’è eroismo in questa storia e d’amore, forse, ne è rimasto appena un briciolo.
Sono altre emozioni, sfumate ai limiti dell’indistinguibile, a corredare la pellicola, quasi del tutto priva di accompagnamento musicale: eccitazione, pietà, disgusto, vergogna e, firma del regista, senso di colpa. È un peccato che, all’ascesa di quest’ultimo, insieme al personaggio di Maysa Abed-Alhadi (moglie incinta di Saleem), il ritmo si sia inabissato troppo e non riesca a recuperare prima dei titoli di coda. Il finale anticlimatico è comunque potente, ma avrebbe potuto raccogliere molto di più, vista la semina più che abbondante.
Andrea Giovalè, Cinematografo.it, 22 Aprile 2019
Nessuna storia può restare privata quando c'è di mezzo la questione palestinese. Neanche una storia di sesso. Se lei è israeliana e lui è palestinese non c'è segreto che tenga, tutto diventa affare di stato. Da lì timore di complotti politici, accuse di spionaggio, minacce a ripetizione e morti ammazzati nel mezzo. Il regista palestinese Muayad Alayan, seguendo la sceneggiatura decisamente impeccabile di suo fratello Rami, mette in scena quella che in un film italiano medio(cre) sarebbe stata una semplice storia di corna, trattandola con rara grazia, forza vitale, autenticità.
Si fa presto ad affezionarsi ai due protagonisti, al basico Saleem (notevole Adeeb Safadi) che cerca rifugio ed evasione tra le braccia della volitiva Sarah (Sivane Kretchner, memorabile). I due vivono ai due poli opposti (da un punto di vista geografico, ma anche religioso e politico) di Gerusalemme, e i loro incontri clandestini nulla tolgono, apparentemente, alle vite condotte con i rispettivi coniugi. Anche qui parliamo di caratterizzazione dei personaggi - e relative performance- da applauso, da una parte il colonnello David (Ishai Golan) tradito nell'orgoglio di marito e di soldato. Dall'altra la dirompente Bisa (Maisa Abd Elhadi), protetta dal fratello e dal velo, eppure pronta a farsi leonessa con tanto di pancione contro tutti e tutto quando il marito fedifrago verrà imprigionato e accusato di spionaggio. A sostenerla, un'altra figura memorabile e contemporanea: l'avvocatessa.
Sono le donne a fare la storia e cambiarne i destini, mentre gli uomini perdono tempo a guerreggiarsi tra loro. Mostra questo, la visione di The Reports on Sarah and Saleem, presentato in anteprima nazionale al Bari International Film festival. Un film emotivamente sorprendente, ideologicamente spiazzante e difficile da dimenticare, in cui le rivali in amore diventano loro malgrado alleate. Insieme lottano contro un'ingiustizia più grande, quella di governi che non vedono l'ora di scoprire complotti inesistenti, strumentalizzare notizie e trasformare i cittadini in avversari da combattere.
La regia di Muayad Alayan è matura, benchè si tratti solo di un'opera seconda, e ricorda a tratti quella di Asghar Farhadi, con zero didascalismi e un'eleganza rara nel raccontare anche le passioni più primordiali, senza troppo schierarsi da un punto di vista politico, tanto meno morale. Certo, la questione politica è prepotentemente e fa la differenza, tuttavia viene trattata come un contesto in cui far muovere una storia decisamente avvincente e magistralmente congeniata, che dura 133 minuti ma arriva veloce allo spettatore come un proiettile.
Restano nel cuore, i protagonisti di questo film, ognuno con la sua colpa, ognuno con la sua voglia di vita e desiderio di giustizia. Restano i loro sguardi, i sospiri lunghi, la difficoltà ad esprimere sentimenti inconfessabili, la loro voglia di abbassare il volume dei notiziari di morte per abbandonarsi al flusso dirompente della vita. Che non è mai giusta, né perfetta: è quel che è, dice l'amore.
Claudia Catalli, Mymovies.it, 26 aprile 2018
Dopo l'esordio di Amore, furti e altri guai, presentato al Festival di Berlino nel 2015 e arrivato nelle nostre sale l'anno successivo, il cineasta classe 1985 Muayad Alayan con Sarah e Saleem torna a raccontare la Gerusalemme divisa e il conflitto israelo-palestinese. Questa volta, però, lo fa con un approccio decisamente differente. Se infatti nell'opera prima il racconto delle molteplici disavventure di un ladro che cambiava vita in seguito al furto di una macchina si sviluppava nella direzione della commedia nera, in questo secondo lavoro il registro privilegiato è quello drammatico. Come si vedrà anche più avanti nella nostra recensione di Sarah e Saleem, il pregio principale del film è quello di riuscire a restituire con forza un convincente e coinvolgente spaccato della vita contemporanea a Gerusalemme, dominata e condizionata anche nei suoi aspetti più privati dai laceranti contrasti politico-sociali. (…) Coadiuvato dal fratello Rami Musa Alayan in fase di scrittura della sceneggiatura, il palestinese Muayad Alayan costruisce un racconto avvincente che si muove in modo molto efficace a cavallo tra dramma familiare e socio-politico, senza mai cedere a caratterizzazioni didascaliche o banali semplificazioni, capace di far riflettere lo spettatore sulle molteplici implicazioni che le apparentemente insanabili tensioni tra israeliani e palestinesi possono avere sulle vite degli abitanti di Gerusalemme.
Anche grazie all'intelligente ricorso a una struttura circolare che copre esattamente la prima metà del film e a una solida regia minimalista, ci si appassiona dal primo all'ultimo minuto alle vicende che scorrono sullo schermo e alle traiettorie psicologiche dei personaggi principali, tratteggiati senza pregiudizi nella loro fragile umanità e interpretati in maniera genuina da Adeeb Safadi (Saleem), Sivane Kretchner (Sarah), Ishai Golan (David) e Maisa Abd Elhadi (Bisan). Del cast di livello fa parte anche Kamel El Basha, vincitore due anni fa della Coppa Volpi come migliore attore al Festival di Venezia per l'ottimo L'insulto di Ziad Doueiri, qui nei panni di un uomo dello spionaggio palestinese.
L'opera seconda di Muayad Alayan convince per come è in grado di immergere nelle travagliate esperienze dei protagonisti, mostrando quanto una banale vicenda di relazione al di fuori del matrimonio, nel contesto del fragile e conflittuale tessuto sociale di Gerusalemme, possa condurre a conseguenze drammatiche e imprevedibili. Non si tratta certo del film più originale o raffinato tra i molti che negli ultimi anni hanno affrontato il tema delle molteplici tensioni tra israeliani e palestinesi, ma grazie a una sceneggiatura priva di sbavature e a una regia sempre funzionale alle esigenze narrative, oltre alle ottime prove offerte dai protagonisti, Sarah e Saleem si rivela un'opera intensa e stimolante.
Luca Ottocento, Movieplayer.it, 24 aprile 2019