Critica
Se fosse musica, sarebbe un valzer. E non solo perché è la musica di apertura. Le prime scene del quarto film tedesco in concorso a Berlino In The Aisles, sono moderni simboli della vita lavorativa operaia globale.
Gli immensi parcheggi vuoti, i giganteschi pali della luce, e sullo sfondo il mega supermarket come tutti li conosciamo, ai bordi delle nostre città.
Un non luogo, un’utopia di abbondanza, senza però il minimo fermento di speranza. È su questi lunghi bellissimi piani sequenza che il Danubio blu comincia a suonare le sue note.
La giornata sta per iniziare. Sembra l’alba del mondo, non di una provincia del Brandeburgo, Germania. Il valzer cresce, la camera comincia a scorrere precisa all’interno del market.
I suoi corridoi immensi ancora immersi nell’oscurità, le tonnellate di prodotti perfettamente ordinate, l’ordine di un sistema che sembra poter vivere una vita propria, senza ingerenze umane.
In The Aisles di Thomas Stuber è un film su quelle persone di cui il cinema non parla. Non più. Fino a una generazione fa, e non solo nel mondo socialista, la parola operaio, anche non specializzato, aveva un riconoscimento implicito. Una forza positiva intrinseca.
Oggi chi lavora nei magazzini di Amazon, ad esempio, è simbolo “di chi non ce l’ha fatta”. Proprio come Christian (l’astro nascente del cinema tedesco, già visto in Transit in concorso e European Shooting Star della Berlinale 2018, Franz Rogowski). Prima un personaggio come lui sarebbe stato l’eroe di un film socialmente critico.
Eppure in tutta questa monotonia, succede l’incredibile: Stuber infonde nel suo film un’anima, e fa aggirare l’amore e la morte tra gli infiniti corridoi e nelle vite dei tre protagonisti Christian, Marion (la bravissima Sandra Hüller di Toni Erdmann) e Bruno.
La forza lavoro a tempo, in affitto, a chiamata, sono gli schiavi del moderno mondo del lavoro. La musica dopo i valzer si innesta in Johannes Brahms per poi concludersi, verso la fine del film, nella musica degli schiavi afroamericani. In den Gängen, il titolo tedesco, è un monumento al lavoro, alla solidarietà tra persone che sanno di non poter contare su, o avere, molto altro. Una vita però può essere miracolosa anche nelle piccole, o piccolissime cose.
Simone Porrovecchio, Cinematografo.it, 12 Febbraio 2019
Thomas Stuber offre uno squarcio della Germania dell'Est, vista attraverso un enorme supermercato lungo l'autostrada nei dintorni di Lipsia. La provincia tedesca è fatta di quotidianità, grigiore e rassegnazione, ma il regista riesce a trovare nella banalità del quotidiano momenti di rara poesia.
Tratto da un racconto di Clemens Meyer, cosceneggiatore del film, In den Gängen è il racconto esatto della vita ripetitiva dei lavoratori che trovano amicizia, amore, orgoglio e dignità tra gli scaffali del supermercato. Un diario delle giornate, che indistintamente scorrono una dopo l'altra, tutte uguali da non rendersi più conto del tempo. Finire il lavoro la sera tardi e tornare a casa solo per riposare quelle poche ore prima di ricominciare una giornata uguale a quella precedente, è il ritmo quotidiano nella provincia tedesca. Eppure Stuber riesce a far sentire il suono dell'oceano in quello del carrello elevatore, a far nascere una storia d'amore tra sguardi, silenzi e sorrisi. Se poi proviamo a immaginare la vita quotidiana sulle note di Danubio Blu in sottofondo, il realismo può diventare magico.
Sandra Hüller, l'eccezionale manager stressata in Vi presento Toni Erdmann, e Franz Rogowski conducono una coreografia di sguardi tra scatole di cioccolata, inviti non detti alla macchinetta del caffè e desideri mai soddisfatti in una tenera storia d'amore. Suddiviso in capitoli e raccontato in prima persona da Christian, In den Gängen esplora nevrosi, manie, abitudini, sogni, passioni e segreti dei lavoratori che formano un microcosmo dell'umanità, colta nell'attività che occupa la maggior parte della loro vita.
Il lavoro riempie in modo totalizzante le giornate della provincia. E dal supermercato neanche Stuber riesce a uscire, preferendo passeggiare tra gli scaffali dell'anima di ciascuno. La luce del sole non entra nelle giornate dei lavoratori, in cui è sempre buio come sui loro volti. Il regista scruta dunque le loro ombre, occhiaie e rughe. Perché tanto sono ordinate le corsie del supermercato quanto scompigliate e complicate le vite nelle loro case.
Ma Stuber si prende tutto il tempo necessario per raccontare i dettagli prima di rivelare le storie. I sentimenti non sono sempre classificabili nei diversi scaffali, né riponibili nel congelatore in attesa di essere acquistati, nascono anche al buio di un'eterna notte.
Francesca Ferri, Mymovies.it, 24 febbraio 2018
In Un valzer tra gli scaffali troviamo un giovane tatuato e introverso, Christian, che entra in periodo di prova per lavorare in un grande magazzino nella Germania orientale. Qui deve usare la divisa a maniche lunghe per coprire il più possibile i tatuaggi su braccia e collo per potersi presentare al meglio ai clienti e inizia a lavorare a fianco di Bruno, ma viene anche a contatto con una collega, Marion, che non lo lascia affatto indifferente.
La location viene percepita quasi come una casa per il protagonista, il personale che ci lavora sembra costituire una grande famiglia, al punto che sembra quasi innaturale abbandonarlo a fine turno per tornarsene a casa, ognuno per la propria strada come se nulla fosse accaduto nelle ore precedenti. Quella de Un valzer tra gli scaffali è una visione dell’ambiente lavorativo che osserva un certo grado di disincanto. La narrazione, infatti, lascia spazio alla riflessione sulle condizioni dei personaggi che rispecchiano delle problematicità che sono quanto mai vive e reali nella società in cui viviamo. Vengono mostrate condizioni di lavoro non particolarmente ottimali e quanto mai realistiche, con una critica al consumismo abbastanza facile da percepire.
Il supermercato è quindi più che una semplice location o un pretesto per far partire le vicende nel film e le sue caratteristiche vengono evidenziate anche dalle scelte sul piano tecnico. La lunghezza dei corridoi del grande magazzino dove vediamo lavorare e muoversi i personaggi, infatti, viene accentuata dalla regia moderando la profondità di campo. La macchina da presa rimane per lo più statica, indulgendo a movimenti fluidi e minimali quando strettamente necessario. Il tutto è volto ad evidenziare una scenografia caratterizzata dall’ordine e una certa cura nei dettagli un po’ come lo sono gli scaffali del supermercato. La fotografia, a sua volta, con il suo calore riproduce fedelmente l’illuminazione artificiale che caratterizza un luogo chiuso, dove fatichiamo anche a capire se sia giorno o sia notte, se non grazie agli squarci sul mondo esterno che abbiamo quando i personaggi escono per un motivo o per un altro.
I personaggi in Un valzer tra gli scaffali vengono caratterizzati il necessario per avere una propria personalità, anche se alcuni sono volutamente avvolti nel mistero, soprattutto quando ci vengono mostrati dal punto di vista del nostro taciturno protagonista. Parla di lui anche la colonna sonora che, se da una parte vede alcune eccellenze della musica classica, ogni tanto ci inserisce alcuni brani cantati che sono funzionali a materializzare i pensieri del protagonista in delle situazioni particolarmente significative. Il film risulta avere, insomma, una sobria impalcatura in tutti i suoi aspetti.
Valentina Albora, Movieplyer.it, 7 Febbraio 2019