Critica
Quello che aveva colpito in quel gioiello di Ida, poi vincitore dell’oscar, era il ritmo imposto dal suo autore, Pawel Pawlikowski; regia e montaggio tessevano una trama coinvolgente eppure anti spettacolare, con dialoghi ridotti al minimo e uno sviluppo narrativo più suggerito da altri fattori che sbandierato. Nessuna scena madre, quindi. Non può che far piacere riscontrare una pari maestria, addirittura superata da una storia e dei personaggi memorabili, nel suo nuovo film, Cold War. Siamo sempre in Polonia, in anni non troppo lontani: dal 1949 fino alla metà degli anni Sessanta.
Quello che non cambia sono i suoi protagonisti rinchiusi letteralmente nel suo formato 4:3. Se in Ida la giovane novizia aveva la forza per vedere il mondo appena al di là delle mura del suo convento di clausura, per poi tornare indietro, seppure maturata, in Cold War i protagonisti sono due: un pianista e una cantante, sullo sfondo di una Polonia faticosamente in ricostruzione sulle rovine della Seconda guerra mondiale. Un’altra storia d’amore assoluto, non verso un Dio, ma fra due persone destinate come nei migliori feuilleton ottocenteschi a non stare mai insieme, almeno in questa terra, nonostante il loro sia un amore definitivo e come tale identificato ben presto da entrambi. Come non cedere a un destino che, pur male assortiti e provenienti da esperienze diverse, gli impone sempre di inciampare uno nell’altra?
Cold War prosegue a ondate, con alcune scene che ci aggiornano sullo stato (anche geograficamente) in cui i due si trovano, dall’innamoramento nel 1949 fino a una conclusione in cui finalmente prendono in mano il loro destino - naturalmente non vi diremo come - nel 1964. Sullo sfondo, mai il tema principale ma sempre incombente, la Guerra fredda, il destino di chi diventò adulto alla fine della guerra, le cui speranze di potersi costruire un futuro finalmente sereno e libero si infransero contro l’irrompere della dittatura comunista, e della Polonia in particolare, con la sua storia maledetta e costantemente incompiuta, così come l’amore fra Zula e Wiktor. Gli anni passano e i luoghi in giro per l’Europa in cui si ritrovano aumentano: dopo Varsavia, Parigi, la Iugoslavia, Berlino.
I due si chiamano come i genitori di Pawlikowsi, a cui il film è dedicato, morti per un beffardo e definitivo scherzo del destino nel 1989, proprio appena che crollasse quel dannato muro di Berlino che aveva sconvolto le loro vite. Zula ha una personalità in fiamme, un orgoglio che la fa sempre uscire dai binari e una voce che fa sciogliere in lacrime, mentre Wiktor è alto e dinoccolato, instabile ma sempre in piedi, alimentato a nicotina e serate nei jazz club.
La musica ha un ruolo centrale, come in Ida e ancora di più. Dal primo fotogramma, in cui Wiktor gira per il Paese alla ricerca di cantanti e musicisti tradizionali da preservare, fino alle note che fanno vibrare la coppia protagonista. La musica è il motore che alimenta l’amore e rende indivisibili due persone che non lo sarebbero, permettendogli di comunicare.
Inconsciamente il moto perpetuo dei due in giro per l’Europa, che comporta la fuga al di là della cortina di ferro e per Wiktor la perdita di ogni nazionalità, è il tentativo di trovare un luogo in cui il loro amore possa sbocciare veramente, aiutati dall’universalità della loro amata musica. Tanto che sembrano conciliati solo quando è un’altra colonna sonora a predominare, quella dei suoni della natura, che sia in una toccante nottata in barca lungo la Senna o in autobus inseguendo una ritualità sempre negata, per cementare il loro amore.
Anni apparentemente immobili, ma in cui tutto cambia, sempre più velocemente di quanto possano affannarsi a stargli dietro Wiktor e Zula, in un film che non spreca una parola o un’inquadratura, dal ritmo irrequieto eppure altèro, che conferma la maestria di Paklowski, ormai uno dei registi di riferimento del cinema europeo.
Mauro Donzelli, Comingsoon.it, 11 maggio 2018
Dopo l’Oscar per Ida, Pawel Pawlikowski firma un altro grande film in bianco e nero, ancora una volta adottando l’aspect ratio 1:1.37.
E torna alla Polonia dell’immediato dopoguerra, nel 1949, quando dal nulla di villaggi rurali seminascosti dal bianco inghiottente della neve e del cielo, iniziò il reclutamento di quello che da lì a poco divenne il “Mazowsze”, corpo di balli e canti popolari nato per volontà del governo filosovietico, che venne poi esportato in tutto il blocco orientale nell’arco degli anni ’50.
È in questo contesto che prende forma l’incredibile storia d’amore tra Wiktor (Tomasz Kot), musicista e direttore della compagnia, e l’allieva Zula (Joanna Kulig), ragazza su cui grava il sospetto di aver ucciso il proprio padre.
Arrivati a Berlino Est per un’esibizione, Wiktor organizza la fuga dall’altra parte del blocco per vivere finalmente in libertà quella storia d’amore. Ma Zula, contro ogni previsione, non si presenta all’appuntamento concordato.
È l’inizio di uno straordinario melodramma al di qua e al di là della cortina di ferro. Che il regista polacco costruisce per frammenti, balzando in avanti negli anni (fino ad arrivare a metà anni ’60), tra una dissolvenza in nero e un’altra, facendo perdere e incontrare i due protagonisti più volte.
Dal suggestivo e trascinante folk tradizionale si arriva alle contaminazioni jazz parigine di fine anni ’50, e lo sviluppo dei due personaggi (interpretati con una classe rara, e Joanna Kulig – già vista in Ida – farà parlare di sé) è inscritto nei cambiamenti emotivi che un mutamento così repentino e cruciale di quell’epoca portava con sé.
Forma e racconto si amalgamano per un’operazione che vagamente potrebbe ricordare il Frantz di Ozon, anche se qui l’asticella si alza in favore di una portata romantica maggiore: basti pensare alla dedica finale di Pawlikowski, “ai miei genitori”, che con i due protagonisti condividono il nome di battesimo (Wiktor e Zula) e gran parte di una storia d’amore travagliata: “Erano entrambi due persone forti e meravigliose, ma come coppia un infinito disastro”, ha detto lo stesso regista.
Che in Cold War – premiato per la regia a Cannes 2018 e trionfatore agli EFA, gli Oscar europei, con 5 statuette per miglior film, regia, montaggio, sceneggiatura e attrice – li riporta in vita (sono entrambi morti nel 1989, poco prima che venisse abbattuto il Muro di Berlino) per farli tornare a suonare, cantare e danzare quell’amore così travolgente e impossibile, tra la natia Polonia, la Berlino divisa, la Jugoslavia e la Parigi bohémien dove ogni cosa sembrava possibile, ma la purezza del primo incontro sembrava perduta.
E allora meglio rimettere in discussione ogni cosa, ogni occasione di soddisfazione artistica e personale, e riassaporare la nostalgia di quella chiesetta diroccata nel fango. Per poi osservare l’orizzonte da una panchina. E spostarsi di nuovo: “Andiamo dall’altra parte, la vista è migliore da lì”.
Valerio Sammarco, Cinematografo.it, 19 dicembre 2018
Non bisogna lasciarsi ingannare dal titolo, nel nuovo film di Pawel Pawlikowski non ci sono spie, trattati politici o minacce nucleari. Eppure meglio di tanti altri film con la stessa ambizione, questo Cold War racconta quell'epoca in cui in tanti nei paesi dell'est europeo, come appunto la Polonia, guardavano con speranza e desiderio verso Occidente.
Riuscire a raccontare non solo un paese ma un'intera epoca attraverso una storia d'amore è il chiaro segno di un grande talento e di un grande autore. Ed è il vero motivo per cui il pubblico di Cannes ha giustamente tributato a quest'opera la prima grande ovazione dell'edizione numero 71. Se dopo l'Oscar per Ida sarà la volta anche della Palma d'Oro è ancora presto per dirlo, ma di certo il regista polacco è riuscito nella difficile impresa di non deludere le pur altissime aspettative.
In un'ora e mezza i due protagonisti della pellicola si amano, si lasciano e si ritrovano a suon di musica folk e jazz: lui, Wiktor, è un pianista e compositore che vaga per le campagne alla ricerca di giovani talenti per uno show di musical tradizionale; lei, Zula, è una ragazza ambiziosa ed energica, dalla bellezza talmente sfacciata da far passare in secondo piano le pur discrete doti canore.
L'intesa tra i due è immediata ma la loro storia sarà tormentata, destinata ad essere costantemente rimandata nel tempo e nello spazio: Varsavia, Berlino, Parigi, la Yugoslavia e poi di nuovo la Polonia; ogni luogo ha un suo significato ben preciso, ogni data che scandisce i loro incontri ci ricorda che il mondo intorno a loro va avanti eppure il loro amore rimane non solo immutato ma anche immobile. Impossibilitato ad andare avanti. Perché se da una parte lui vuole lasciare il proprio paese ed abbracciare definitivamente le tante opportunità offerte dal mondo occidentale e libero, lei non riesce a rinnegare le proprie origini e tradizioni, a non vivere un'eventuale partenza come un tradimento.
Proprio come il precedente Ida, anche questo film è girato in uno splendido bianco e nero e in un formato 4/3 che sembra voler avviluppare i suoi personaggi e non lasciarli mai liberi, nemmeno di sognare. Ma d'altronde con Cold War Pawlikowski racconta l'amore proprio come se fosse una interminabile guerra a distanza: non un amour fou ostinato ed impetuoso, ma una lotta di equilibri dolorosa e calcolatrice in cui ogni mossa spinge l'uno verso l'altro nel modo più inaspettato.
L'esito di questa storia d'amore è già tutta nel titolo e nella metafora che sottende l'intero film, ma poco importa quando il viaggio è di questa intensità ed eleganza. E quando gli interpreti, in particolare la splendida e magnetica Joanna Kulig, sono assolutamente perfetti. Una guerra allegorica come questa mostrataci da Pawlikowski, combattuta non a suon di cannone ma a colpi di cuore, non si vedeva sullo schermo forse dai tempi di Casablanca, e siamo certi che ci vorrà altrettanto tempo prima di vederla eguagliata.
Luca Liguori, Movieplyer.it, 11 Maggio 2018
Il formato quadrato e la riconferma del bianco e nero, che era già stato di Ida, fanno risplendere la prima parte del racconto di Pawlikowski, ispirato dalla vicenda dei suoi genitori e dedicato alla loro memoria.
Come figure di un'icona, i corpi di Zula e Wiktor, irrigiditi dalla norme di comportamento e dai dettami dell'omologazione ideologica, brillano di luce propria, arroventati dal sentimento amoroso, a contrasto con un fondo scuro, che è quello delle scenografie dei teatri in cui si esibiscono ma anche quello del vuoto di libertà, della chiusura al futuro. Dentro le pareti del formato quattro terzi non c'è spazio per il resto del mondo: il quadro ritaglia l'oggetto d'amore, la bellezza infantile e l'energia destabilizzante di Zula (si dice che abbia ucciso il padre), e tutto il resto finisce fuori, non importa più.
Nella seconda parte la magia si perde. Nella Parigi della felicità obbligata, Zula non riesce ad allinearsi, ha alti e bassi, come una Zelda d'altri tempi e altri luoghi. Non capisce le metafore (non ne ha mai incontrata una prima), né lo spleen che è proprio del jazz e che Wiktor sente invece affine e incarna naturalmente. La sua energia emerge incontrollata, fuori luogo, e per ritrovarsi non le resta che tornare sui suoi passi. Sul loro amore si profila l'ombra dell'auto condanna.
Anche il film di Pawlikowski, però, a questo punto rischia di smarrire la propria singolarità e di camminare, sul piano visivo e narrativo, su un selciato già battuto. Il bianco e nero della soffitta bohémien sui tetti appartiene ad un altro genere di romanticismo iconografico, patinato e seriale. Ma è una tappa del percorso, non il suo approdo.
Nonostante il senso di predestinazione irreggimenti il film dentro una partitura più lirica che jazz, un romanzo per immagini, Pawlikowski conferma lo sguardo acuto sulla psicologia femminile e la capacità di associare i movimenti del suo cinema all'inquietudine dei protagonisti.
Marianna Cappi, Mymovies.it, 11 maggio 2018