GIOVEDì 7 giugno ore 21.00 (Sala Lampertico) VENERDì 8, SABATO 9 e DOMENICA 10 giugno ore 16 - 18.30 - 21 (Sala ODEON) |
Regia
Laurent Cantet
Genere
DRAMMATICO
Durata
113'
Anno
2017
Produzione
DENIS FREYD PER ARCHIPEL 35, FRANCE 2 CINÉMA
Cast
Marina Foïs (Olivia), Matthieu Lucci (Antoine), Warda Rammach (Malika), Issam Talbi (Fadi), Florian Beaujean (Étienne), Mamadou Doumbia (Boubacar), Julien Souve (Benjamin), Mélissa Guilbert (Lola), Olivier Thouret (Teddy), Lény Sellan (Boris) |
La Ciotat, estate 2016. Antoine ha deciso di frequentare un laboratorio di scrittura per giovani aspiranti scrittori, finalizzato a scrivere un romanzo noir con l'aiuto di Olivia, una celebre romanziera. Il lavoro di scrittura è più che altro teso a far riemergere il passato operaio della città e del cantiere navale chiuso da 25 anni, una nostalgia che ad Antoine non interessa più di tanto. Più attratto dall'ansia del mondo moderno, Antoine si metterà rapidamente in opposizione al resto del gruppo e a Olivia, che dalla violenza del giovane si sente allarmata e allo stesso tempo sedotta.
Laurent Cantet torna a La Ciotat. Lì dove i fratelli Lumière immortalarono l’arrivo del treno in stazione, lì dove, sul finire degli anni ’80, gli operai dei gloriosi cantieri navali iniziarono una lunga lotta all’indomani dell’improvvisa chiusura. Cantet, che scrive il film insieme al Robin Campillo di 120 bpm, ci porta nella cittadina a pochi passi da Marsiglia immaginando un gruppo di ragazzi alle prese con un workshop di scrittura, tenuto da una scrittrice affermata (Marina Foïs). Tra i giovani allievi, a spiccare è Antoine (Matthieu Lucci), ragazzo introverso seppur talentuoso, che col passare dei giorni dimostra un atteggiamento sempre più aggressivo, con posizioni violente e razziste. È un film di contrapposizioni L’atelier, che conferma – ad una decina d’anni dalla Palma d’Oro ottenuta con La classe – il grande talento di un regista come Cantet nel saper inquadrare i dilemmi delle giovani generazioni, dilemmi che non possono prescindere dal contesto politico e sociale attuale, oltre che dal confronto (e l’assenza dello stesso) con le generazioni precedenti. L'idea del film risale al 1999 e a un workshop di scrittura al cui montaggio video aveva lavorato il co-sceneggiatore di Cantet e che vedeva coinvolta una scrittrice inglese con un gruppo di giovani de La Ciotat che avevano come unico vincolo quello di ambientare l'azione nella città portuale. Sono molte le tematiche affrontate da Cantet in questo diario della disperazione non solo francese, ma soprattutto occidentale: il razzismo, il terrorismo e la paura ad esso collegata, la povertà, lo scontro tra generazioni, il fascismo rinato in un’Europa dimentica non solo del proprio passato ma anche del proprio futuro, che si accontenta di un presente di odio, solitudine e povertà. Su tutti domina però la performance straordinaria dell’esordiente Matthieu Lucci, capace di dipingere uno dei migliori “giovani” visti recentemente al cinema. Vivido, intenso, emarginato perché un po’ se la cerca ma anche perché troppo più intelligente e talentuoso dei suoi coetanei, si collega in modo lampante e stupendo all’omonimo Antoine de I 400 Colpi, capolavoro di François Truffaut, di cui è erede, trasposizione moderna ed evoluzione allo stesso tempo. Afflitto da un’immaturità e una disperazione antiche, epocali, di quelle che di solito abitano i reduci di guerra o coloro i quali il meglio della vita lo hanno lasciato alle spalle e non davanti, si fa strada in un mondo freddo, ostile e cupo. Solo, rabbioso, osservatore, fascista a fasi alterne perché succube di un cugino immaturo e stupido o perché annoiato, il protagonista si erge a perfetto simbolo della imperscrutabile e strana gioventù dei nostri tempi, arrogante ma allo stesso tempo profondamente insicura, senza alcuna autostima, senza ambizioni e soprattutto sogni. Ma in L’Atelier il regista, al contrario di tanti altri, non concede alcuna attenuante ai giovani, non li commisera né giustifica, anzi li accusa, li sferza, li mostra immaturi, egoisti, cafoni, violenti e intolleranti, e soprattutto fieri di esserlo. Materialisti, senza fantasia, spaventati da ciò che non conoscono o non capiscono, sposano un’ignoranza che sostanzialmente li condanna ad essere immobili dal punto di vista mentale e caratteriale. I film di Laurent Cantet non iniziano con il primo ciak, ma con lunghe settimane di preparazione in cui i suoi attori, spesso non professionisti, lavorano per plasmare la sceneggiatura insieme all’autore, nutrendo i personaggi per renderli più veri. I ragazzi di una scuola di periferia li aveva già mirabilmente raccontati ne La classe, vincitore della Palma d’oro a Cannes nel 2008, quando aveva seguito un anno di un gruppo di allievi di periferia. L’Atelier si concentra invece in un’estate, seguendo un workshop di un gruppo di ragazzi che, seguiti da una scrittrice di un certo successo, devono realizzare collettivamente un thriller, con la sola condizione che sia ambientato nella loro realtà.
Trama
Critica
In questo work in progress del laboratorio di scrittura, dove l’obiettivo finale è quello di dare alla luce un romanzo thriller, ambientato proprio a La Ciotat e capace di portarne in superficie la storia e le sue particolarità, le suggestioni e le idee avanzate dai vari partecipanti – tutti ragazzi di origine ed estrazione differente – si susseguono, la parola ritrova la sua centralità, il dialogo e il confronto, anche acceso, divengono la base per ragionare sul parallelismo tra realtà e letteratura.
Ma sono tutte dinamiche che sembrano interessare poco ad Antoine, di fatto l’unico che Cantet inizia a seguire al di fuori del gruppo, l’unico – allo stesso tempo – capace di catturare l’attenzione extra laboratorio di Olivia, la scrittrice tutor del progetto.
Ed è proprio Antoine ad incarnare l’altra, evidente contrapposizione del film, quella tra parola e immagine: alla prima il ragazzo sembra di gran lunga preferire la seconda. Solitario, si rinchiude nella sua stanza nutrendosi di video inerenti l’addestramento, mentre alla fine di ogni incontro di gruppo si tuffa da quelle scogliere a volte riprendendosi con lo smartphone.
Cantet prova a decifrare, ad insinuarsi in questa quotidianità fatta di lunghe camminate e svogliate uscite serali col resto di una comitiva con la quale Antoine sembra condividere ben poco oltre alcune, discutibili idee “nazionalistiche”. E lo stesso prova a fare Olivia, al tempo stesso allarmata e sedotta da questo ragazzo.Alla fine, come in ogni thriller che si rispetti, bisogna individuare il “movente” che si nasconde dietro le convinzioni, e le azioni dei personaggi. E se alla base di tutto ci fosse semplicemente la noia?
Non siamo dalle parti di Risorse umane e A tempo pieno, forse i due film più riusciti di Cantet, ma è innegabile quanto, ancora oggi, il regista francese riesca a prodursi in ragionamenti così lucidi sull’attualità dei nostri giorni, chiedendosi quanto il passato possa influenzarne l’andamento e dove siamo destinati ad arrivare.
Mirando alla luna. E sparando nel vuoto.
Valerio Sammarco, Cinematografo.it, 4 giugno 2018
Cantet lo sfrutta per proporre una lettura della condizione giovanile in un contesto che è diverso da quello, in qualche misura cogente, che aveva caratterizzato La classe. Qui il gruppo riunito intorno ad Olivia ha deliberatamente scelto di misurarsi con la scrittura e con la storia e il vissuto sociale di una città che nella seconda metà degli anni Settanta ha visto mutare la propria vita passando da cantiere navale a sito di manutenzione di yacht con le conseguenti perdite di lavoro. Siamo quindi dinanzi a una perfetta cartina al tornasole per comprendere quanto il passato (anche quello relativamente recente) abbia ancora un senso per i giovani in un film che si apre con le immagini di un videogioco di azione fantasy.
Antoine ne rappresenta un ampio campione, con le sue ritrosie, con la sua fragilità e con la permeabilità a slogan razzisti. Alessandro Baricco sostiene che per gettare ponti tra le persone è necessario (anche se potrebbe apparire contraddittorio a una prima lettura) che queste abbiano costruito dei muri, abbiano cioè un patrimonio identitario e culturale in cui riconoscersi. È esattamente ciò che manca ad Antoine e a molti suoi coetanei che finiscono così per abbracciare le convinzioni di chi sembra loro offrire l'identità che loro non hanno mentre invece li riempiono di slogan tesi non a costruirne una ma solo e brutalmente ad identificare un nemico.
Giancarlo Zappoli. Mymovies.it, 23 maggio 2017
Perché alla fine del viaggio, il grande regalo del regista è trattare i giovani come esseri responsabili, a cui troppo spesso il cinema o la politica regalano giustificazioni troppo facili, troppo comode. Chi, nella La Ciotat degli anni ’80, nell’Italia o negli Stati Uniti della crisi economica aveva la stessa età, dovette far fronte a ben altri problemi che qualche insulto razzista o la noia.
Certo L’Atelier di Cantet punta anche il dito contro la società moderna, incapace di garantire un futuro, di dare qualcosa in più ai giovani che problemi ereditati da un passato che non conoscono, che temono e che finiscono per odiare perché sentono come un peso, una responsabilità che non hanno scelto. Sapiente nella narrazione, perfetto nel dare dal primo all’ultimo minuto una profonda sensazione di disagio e tensione, nell’evitare i cliché e i deja vu, l’opera di Cantet non si limita a puntare un dito ma offre anche soluzioni. Rivalutare la scala dei nostri valori, allontanarci dal concetto per il quale il successo equivale alla felicità, riabbracciare una visione della vita più semplice, più dura anche se si vuole ma più onesta e regolare. Soprattutto ricordarsi che esiste sempre un altrove, che non siamo legati ai luoghi in cui nasciamo, ai volti che stanno attorno a noi e alle parole che udiamo se non lo vogliamo.
È un film politico prima ancora che generazionale, un film non tanto o non solo per i giovani ma sui giovani, spietato, crudo e sincero, che schiaccia con intelligenza i cliché su “l’età della spensieratezza”, ricordandoci come spesso il cinema tralasci di quegli anni la violenza, la solitudine, la disperazione.
Giulio Zoppello, Cinematographe.it, 1 giugno 2018
Un posto che per il cinema rievoca la magia di uno dei primi film della storia: L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat. Una realtà distesa sul mediterraneo, fra Marsiglia e Tolone, che convive da una ventina d’anni con i resti di un’attività cantieristica una volta fiorente, ma ormai relegata a ingombrante sfondo di vita quotidiana. Il tentativo è di puntare sul turismo e sulle scogliere di macchia mediterranea che disegnano una costa bella e frastagliata.
I ragazzi seguono attenti gli incontri, sembrano coinvolti dalla prospettiva di raccontare il loro mondo in un giallo, di rendere catartica la violenza. Il tutto mentre intorno a loro le lotte sindacali, i rimpianti per i cantieri che una volta producevano ricchezza, per loro sono frasi vuote, non avendo mai vissuto quegli edifici ingombranti altro che come relitti sullo sfondo dei loro bagni estivi. Parlando di violenza, la scrittrice inizia a interessarsi ad Antoine, uno degli allievi del corso, sempre pronto a provocare, a scontrarsi frontalmente con i compagni neri e di origine maghrebina. Incuriosita cerca di capire, vuole conoscerne i meccanismi mentali, proprio mentre Antoine stesso nasconde dietro poche parole e diffidenza un’attrazione ai confini del morboso.
In un confronto che interrompe la tutto sommato serena successione degli incontri del workshop, Antoine dimostra di aver letto uno dei suoi polizieschi, ne recita ad alta voce alcuni passi e le rinfaccia di scrivere parole vuote, senza capire quella violenza. Il rapporto fra loro due è una delle cose interessanti del film: lei inizia a curiosare nella vita social di Antoine, nel suo circolo di amici, tra cui esponenti dell’estrema destra che flirtano con la violenza; intuisce un’occasione per assorbirne qualche molecola che possa rendere più sapidi i suoi thriller. Una realtà non disagiata, ma annoiata, quella in cui sono immersi i ragazzi, in cui la radicalizzazione è una valvola di sfogo dalla noia. In questo senso, che si scelga la destra neofascista o l’ISIS, è la ricerca di un senso in un mondo privo di fedi e ideologie a spingere verso una rottura della legalità. Non è neanche una scelta dovuta all’esclusione sociale, a una condizione economica disperata.
L’Atelier è un nuovo sguardo di Laurent Cantet sulle rovine di una Francia post ideologica, che scava con umiltà nel vissuto quotidiano di ragazzi simili a tanti altri, riuscendo a restituire una visione non banale e molto credibile, a stimolare riflessioni su giovani e radicalizzazione molto più che in tanti ponderosi saggi sociologici o suoi lavori precedenti, più apparentemente “politici”.
Mauro Donzelli, Comingsoon.it, 24 maggio 2017
Laurent Cantet
Nato a MELLE, Deux-Sevres (Francia) il 15 giugno 1961, subito dopo il diploma presso la scuola di cinema IDHEC di Parigi, ha girato due cortometraggi, "Tous à la manif" (1994), vincitore del premio Jean Vigo nella categoria corti, e "Jeux de plage" del 1995. Due anni dopo gira il film per la televisione "Les sanguinaires" e nel 1999 è prono il suo primo lungometraggio "Risorse umane", vincitore di numerosi premi fra cui il César 2000 per la migliore opera prima, il premio European Discovery of the Year all'European Film Award 2000, i premi CinemAvvenire e Cipputi al Festival di Torino 1999 oltre al premio come miglior regista esordiente al Festival di San Sebastian 1999. Nel 2001 è presente alla 58° Mostra del Cinema di Venezia con "A tempo pieno", che gli vale il Leone dell'Anno. E' stato assistente alla regia per Marcel Ophuls, per il documentario "Veillées d'armes", resoconto sui corrispondenti di guerra durante la guerra dei Balcani nel 1993. Nel 2008 vince con 'Entre les murs' la Palma d'oro al 61. Festival di Cannes.
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