Critica
C’è una tradizione in Palestina secondo la quale le partecipazioni di nozze si consegnano personalmente, a mano, come forma di rispetto verso gli invitati. Questa consuetudine è al centro di Wajib (in arabo, “dovere”), terzo lungometraggio della regista palestinese Annemarie Jacir.
Il film narra infatti la storia di un padre di nome Abu Shadi e di un figlio Shadi (i due straordinari Mohammed Bakri e Saleh Bakri, padre e figlio anche nella vita reale) che si trovano a Nazareth per consegnare direttamente gli inviti di nozze di Amal, rispettivamente figlia e sorella.
Tutto si svolgerà nell’arco di una giornata e perlopiù all’interno della vecchia Volvo di Abu Shadi, un ambiente costretto dove i due per la prima volta si troveranno a dirsi cose finora non dette.
Verranno fuori due posizioni opposte: da un lato quella più conciliante e tollerante verso il suo paese di Abu Shadi, un palestinese che vive in Palestina e che ha accettato di sottomettersi allo Stato d’Israele (lui è un insegnante e le scuole palestinesi sono attentamente monitorate dagli “Ispettori di conoscenza”che lavorano per il Ministero dell’Istruzione Israeliano), dall’altra quella più netta di Shadi, un giovane che si è trasferito da tempo all’estero e che ha difficoltà a riconoscersi nelle tradizioni e nei valori di coloro che hanno scelto di rimanere nella terra natia.
Un conflitto generazionale che sarà amplificato dalla complessità del contesto socio politico in cui sono immersi: Nazareth, la più grande città della Palestina storica, ora Stato d’Israele, i cui abitanti sono palestinesi cristiani (40%) e musulmani (60%). Lì, in quella città carica di tensioni, vivono alcuni “palestinesi invisibili” che hanno accettato di vivere con diritti limitati pur di restare nel loro paese. Alla fine nessuno dei due protagonisti avrà ragione o torto, come un altro bel film libanese dello scorso anno, L’insulto, ci ricorda. Ma il passato è sempre presente e pronto ad affiorare.
Wajib racconta così con grande intelligenza la storia di due uomini che provano entrambi dolore e rabbia, anche se non lo mostrano allo stesso modo, e ci promette una possibile riconciliazione.
Giulia Lucchini, Cinematografo.it, 18 aprile 2018
Wajib – Invito al matrimonio è il terzo lungometraggio della talentuosa regista palestinese Annamarie Jacir (Salt Of The Sea, 2008), presentato al Festival del Cinema di Locarno 2017, dove si è aggiudicato il Premio Don Quixote e il Premio dei Giovani. Una pellicola familiare in cui l’incontro/scontro generazionale tra un padre e un figlio ha luogo in una terra storica, ferita e dai risvolti sociali delicati e complessi come la Palestina. Un dramma sociale e personale, vicino alle dinamiche quotidiane di ognuno di noi, uno specchio per lo spettatore in cui tutta la magia e il coraggio di una grande regista riflettono di luce propria.
Wajib – Invito al matrimonio: ritratto di due uomini che reclamano la propria dignità, sullo sfondo di una terra storica e fragile come la Palestina.
Abu che non ha abbandonato le proprie origini, nonostante un’esistenza fatta di permessi da ottenere e di regole da rispettare, segnata dall’allontanamento di una moglie che non ha accettato le condizioni del proprio paese, perdendo la propria famiglia in cambio di una libertà tanto desiderata; Shadi che è stato costretto ad andare via, a trasferirsi in un paese (l’Italia) di cui decanta la cucina e l’arte ma che alla fine non è così diverso dalla trafficata e trascurata Nazareth, con la quale però il giovane non riesce a sostenere lo sguardo.
Quello della Jacir è un ritratto toccante, puro e assolutamente sincero e scevro di giudizio, di due uomini che vogliono affermare la propria identità, nonostante le difficoltà della vita. Il matrimonio della figlia è l’occasione di riscatto per Abu, il dimostrare di essere riuscito a crescere i suoi figli e di essere un buon padre; per Shadi è l’inevitabile momento di confronto con il proprio passato e le proprie origini, che saranno sempre parte di lui. La Jacir è capace come pochi di dipingere una storia la cui trama è quasi nulla: un pretesto per raccontare un viaggio di emozioni e consapevolezze.
Gli interpreti, padre e figlio anche nella vita reale, regalano un’interpretazione unica, in un faccia a faccia stretto nei sedili di una vecchia Volvo, la macchina di famiglia, nella quale la vita è trascorsa come un viaggio. Una perla da non perdere.
Cristina Tenca, Cinematographe.it, 26 marzo 2018
Attraverso tortuose salite e discese di Nazareth, brucianti rancori e ricordi di famiglia tracciano la geografia di una città divisa, la storia di un popolo riflessa negli sguardi dei due uomini.
Abu Shadi (Mohammad Bakri) e Shadi (Saleh Bakri), padre e figlio anche nella vita e per la prima volta insieme al cinema ci guidano, a bordo della loro vecchia Volvo, in un road movie urbano tra lo spazio di una città ferita e il tempo di una famiglia distrutta. Nazareth è la terza protagonista di cui la regista e poetessa Annemarie Jacir mette in evidenza le eterne contraddizioni. La più grande città della Palestina storica, oggi Stato d'Israele, Nazareth è pietrificata dall'occupazione israeliana in cui tensioni permanenti infiammano la popolazione, musulmana al 60% e cristiana al 40%. È dunque quella minorità di "palestinesi invisibili", come vengono chiamati i palestinesi cristiani che accettano di vivere con diritti limitati pur di restare nel loro Paese, che la regista vuole raccontare. Una città-ghetto agli occhi di molti, "una città di sopravvissuti" agli occhi di Annemarie Jacir.
Il "wajib" dunque, "dovere sociale" riservato agli uomini della famiglia della sposa, diventa una scusa per la regista che guarda alla sua Palestina attraverso la relazione padre-figlio in cui si riflette l'intera comunità. I due uomini di due diverse generazioni rispecchiano due modi opposti di essere palestinese: se il padre rappresenta la sottomissione allo Stato d'Israele che passa per il compromesso e la paura, il figlio che ha preferito l'esilio, dà voce allo sradicamento e all'idealizzazione di uno Stato che non esiste più o non ancora. Il figlio rimprovera al padre la sua rassegnazione e la sua remissività al sistema locale di potere, compromessi e ipocrisie, a cui il padre oppone la fedeltà alla sua terra e un necessario pragmatismo.
Shadi, invece, con chignon e camicia rosa a fiori, che ha lasciato il Paese dopo le tensioni politiche causate dal suo cine-club e preferisce fare l'architetto a Roma, è visto dal padre come vile che parla della Palestina da lontano con la sua ragazza, figlia di un membro influente dell'Olp. Abu Shadi, così, per orgoglio paterno preferisce dire ad amici e parenti che suo figlio è medico e un giorno tornerà a casa e si sposerà con una ragazza del posto. Le accese dispute tra i due uomini, dunque, risuonano della complessità di una città, difficile da abitare così come da abbandonare.
Tra le interminabili visite e gli interminabili caffè, impossibili da rifiutare, Shadi da architetto passa in rassegna lo squallore e l'abbandono della città, tra insensate strade, inutili teli colorati, onnipresente plastica e montagne di spazzatura, probabilmente invisibili allo sguardo abituato del padre. Ma il continuo movimento e cambio di ambientazione non lascia che il duello verbale diventi una vera disputa. Nonostante la tensione crescente di una conversazione sempre sul punto di esplodere in furiosa lite, basta una canzone che risveglia ricordi d'infanzia per mettere a tacere gli insulti, i rimproveri e i rancori. In fondo entrambi sanno che nessuno dei due ha completamente ragione, entrambi, ciascuno a suo modo, cercano il miglior modo di sopravvivere a problemi più grandi di loro. Così i temi politici, sociali e umanitari accennati con delicatezza rimangono sullo sfondo di una lunga conversazione tra padre e figlio, finalmente riuniti. I momenti più drammatici, inoltre, rivelano preziosi istanti di humour proprio di chi ha una grande umanità e tanta voglia di vivere. Nonostante l'immondizia, la plastica e la polvere, Nazareth riesce ancora a brillare agli occhi di Shadi e Abu Shadi, che si riscoprono dopotutto padre e figlio.
Francesca Ferri, Mymovies.it, 15 febbraio 2018
Presentato all'ultimo Festival di Locarno, Wajib -Invito al matrimonio è un film palestinese che non alza la voce per farsi notare: chi è disposto a scoprirlo, però, ci troverà un piccolo capolavoro di calore e tenerezza. Seguiamo le peregrinazioni per Nazareth di Abu Shadi, insegnante di mezza età, e di suo figlio Shadi, emigrato in Italia e di ritorno in Palestina per il matrimonio della sorella. Come da tradizione, i due uomini compiono un itinerario porta a porta tra parenti e amici per consegnare le partecipazioni alle nozze, scambiando qualche parola tra un tè e un caffè. È un'occasione per scoprire la città e tanti personaggi, rappresentati con tocchi di humour. Sotto i convenevoli, però, giacciono conflitti emblematici: Abu collabora con gli israeliani, Shadi è un oppositore e convive con la figlia di un membro dell'OLP. Che i due bravi protagonisti siano padre e figlio nella vita reale non è informazione secondaria.
Roberto Nepoti, La Repubblica, 19 aprile 2018
(…) Seguendo un consolidato schema narrativo, Annemarie Jacir affida la questione palestinese a un serrato confronto generazionale tra padre e figlio. Se Abu Shadi non ha mai accettato di lasciare la propria terra (mentre pure la moglie se n’è andata all’estero al seguito di un altro uomo) ed è sceso a infiniti compromessi per garantire una vita dignitosa alla sua famiglia, suo figlio Shadi si è invece trasferito in Italia e porta con sé tutta la rabbia dell’amore per il proprio paese, tipico di chi è dovuto fuggire per avere migliori condizioni di vita e soprattutto di chi non si piega alla quotidiana ingiustizia politico-sociale. Il confronto tra i due costituisce il corpo sostanziale del film ed è anche svolto con ampie schematizzazioni. Negli scambi tra padre e figlio, spesso didascalici ed esemplificativi, scorrono tutti i maggiori temi relativi alla questione palestinese, delineando le due figure come due immagini macroscopiche di pensiero e posizionamento politico-culturale.
Ma d’altra parte, come sottolinea la stessa Annemarie Jacir, «La vita è politica», specie in luoghi come la Palestina, dove da decenni la vita quotidiana è scandita dalla rivendicazione dell’esserci. Wajib – Invito al matrimonio tradisce un marcato desiderio di racconto classico, che in tal senso possa veicolare enormi questioni tramite un linguaggio di ampia accessibilità popolare. La stessa adesione a un tòpos narrativo come il rapporto padre/figlio si profila come una scelta forte verso un pubblico discretamente ampio, che accanto alla riflessione politico-sociale sia pure messo in grado di appassionarsi, commuoversi e riconoscersi in un assoluto culturale, funzionale anzi a facilitare l’approccio alle complesse dinamiche locali.
All’interno di questa impostazione generale Wajib – Invito al matrimonio vuole anche mostrare una Palestina a suo modo “borghese”, dove a fronte del terrore politico e di dolorosi sacrifici della coscienza si può condurre anche una vita scandita dai tempi e dalle occasioni che regolano il vivere sociale in ogni dove. Si tratta anzi di una piccola borghesia illuminata, calorosa, aperta pure alla convivenza tra differenti credi religiosi (Nazareth contiene un 60% di islamici e un 40% di cristiani, mentre gli israeliani sono in netta minoranza poiché per lo più si rifiutano di viverci, disertando anche un quartiere costruito appositamente per loro). Di nuovo, in un film che si muove per assoluti, ritorna un altro tema di portata universale, quello del coraggio. Se sia cioè più coraggioso andarsene o rimanere, andare altrove per poter difendere più liberamente la propria terra o restare a combattere giorno dopo giorno, semplicemente tramite la propria esistenza quotidiana. Scendendo a compromessi, tradendo un po’ se stessi, invitando israeliani a un matrimonio non tanto per apertura culturale ma per tornaconto personale. La battaglia quotidiana di chi, già vivendo lì e occupando uno spazio fisico, rivendica la propria esistenza al prezzo di un’infinità di compromessi. Se il mood generale si mantiene a suo modo pure lieve e garbato, tuttavia aleggia costantemente sul film il fantasma della morte, che dall’incipit si ripresenta sotto varie forme lungo il tracciato del racconto. Forse la vita in morte, quando è schiacciata dall’asfissia di una vera libertà.
Annemarie Jacir duplica il livello di conflitto convocando nei ruoli di protagonisti due attori che nella vita sono davvero padre e figlio. Il padre è impersonato dal glorioso Mohammad Bakri (tra gli altri, incarnò il personaggio principale per Saverio Costanzo nel suo Private, 2004), che nel corso degli anni più volte si è scontrato con le autorità israeliane anche per la sua attività di filmmaker – basti pensare alle infinite traversie del suo documentario Jenin, Jenin (2002) dedicato alla distruzione dell’omonimo villaggio palestinese. Nel film di Annemarie Jacir gli tiene testa suo figlio Saleh Bakri, coinvolti in due prove attoriali di cifra sensibilmente diversa. Da un lato Mohammad Bakri emerge sul figlio grazie a una gamma infinita di emozioni lasciate trascorrere sul volto: dall’altro Saleh Bakri si mostra come un attore più introverso, caratterizzato anche da un lieve senso dell’umorismo affidato spesso a una mimica rallentata. Convocati a dare vita a un racconto pure convenzionale, dove somma premura dell’autrice pare essere una studiata equidistanza dalle due figure, indagate nel loro confrontarsi senza operare nette scelte programmatiche nei confronti di uno o dell’altro. Il finale, del resto, sta lì a marcare un lieve e reciproco avvicinamento simmetrico, dove da ambo i lati si accende una sorta di alba della comprensione e accettazione dell’altro. In fondo la stessa equidistanza al bilancino costituisce programmaticità. Resta comunque un generale senso di necessità davanti a un film che cerca chiavi popolari per temi di grande portata, aderendo a una struttura narrativa a suo modo avvincente, che si offre a un pubblico ampio e a un’immediata partecipazione. Buono, come una buona azione.
Massimiliano Schiavoni, Quinlan.it, 12 aprile 2018
Un film drammatico col ritmo di una commedia, la cronaca di una famiglia divisa dal volere dei potenti. Nazareth è una città israeliana, abitata da palestinesi senza terra. Il loro Stato non è riconosciuto. Si aggrappano alle tradizioni per non smettere di sorridere, così padre e figlio vanno per le strade sbrigando un “dovere” che spetta agli uomini: consegnare gli inviti per il matrimonio della figlia/sorella.
La macchina che guidano è un altro campo di battaglia. Si scontrano due generazioni, due modi diversi di guardare alla storia e al passato. Il capofamiglia rappresenta la vecchia guardia, quelli che hanno accettato le regole imposte da Israele. Potremmo chiamarli pragmatici, persone che hanno piegato la testa per portare a casa qualche soldo e avere un piatto caldo di minestra la sera. Hanno sacrificato l’animo militante, accettato il compromesso, per inseguire un’esistenza normale, lontana dai comizi e dalla OLP. Ma i giovani non hanno smesso di combattere: alcuni scelgono la via delle armi, altri restano idealisti, e si rifugiano in Europa per non doversi sottomettere. Tutto questo si consuma all’interno di un’automobile, dove i dialoghi pungenti riflettono lo spirito di un Paese.
Il patriarca invita alla calma e alla comprensione, il primogenito si ribella, e la lite è inevitabile. Fuori c’è Nazareth, con il suo 68% di musulmani e 32% di cristiani, con il suo ritmo frenetico e i rifiuti che non vengono raccolti. Difficile convivere, anche se non siamo nei territori occupati. La regista Annemarie Jacir, la prima palestinese a mettersi dietro la macchina da presa, dirige con sentimento, trasformando una vicenda semplice in un messaggio universale. I ruoli e le convinzioni vengono messi in discussione. Non esiste certezza. Si consuma una resa dei conti privata che si contrappone a quella pubblica. La pace sembra essere all’orizzonte.
Ma Wajib – Invito al matrimonio non è un film politico. Ha il pregio di scavare nel quotidiano, di fotografare tante piccole realtà, dall’intellettuale che si è arreso, alla donna che regala un po’ di dolcezza agli altri con le sue torte. Il road movie urbano di Wajib è un realismo che forse l’Occidente dovrebbe sentire più vicino. Ricorda le peripezie di Soraya, la protagonista de Il sale di questo mare, e il lungo ritorno a casa di Tarek in Quando ti ho visto. Una caratteristica del cinema di Annemarie Jacir è il movimento, il viaggio sia fisico che interiore che compiono i suoi personaggi. Non è mai un girare a vuoto, ma un percorso che va dritto alla meta. Alcuni riscoprono le proprie origini, altri cercano solo di riabbracciare chi li ha messi al mondo. Tutto questo in una Palestina orfana, schiacciata da chi non vuole riconoscerla.
Gian Luca Pisacane, Film.it, 21 aprile 2018