Critica
(...) una vera e propria poesia in immagini realizzata sulle strade della Francia dall'88enne regista Agnès Varda, una delle ultime rappresentanti della NouvelleVague, e JR, giovane protagonista mondiale della street art, celebre per le sue gigantesche fotografie incollate sulle facciate di edifici, muri, scale, cisterne, treni e qualunque superficie lo ispiri. La strana coppia esplora alcuni villaggi per cercare volti e corpi capaci di raccontare delle storie, ma il loro via diventa l'occasione per riflettere sul tempo che passa, sul significato delle immagini e sulla straordinaria bellezza dell'umanità. Impossibile non commuoversi poi quando la Varda tenta senza successo di incontrare lo schivo Godard nella sua casa di Rolle, in Svizzera, e finisce per essere sommersa dai ricordi di un irripetibile passato.
Alessandra De Luca, 'Avvenire', 20 maggio 2017
Dalle spiagge 'storiche' della Normandia ai dock di Le Havre, dai villaggi della Provenza passando per le regioni agricole, i nostri partono alla scoperta della vrais gens, componendo una galleria generosa e nostalgica di volti, interrogando principalmente il mondo operaio e contadino, quello che resta, quello che cambia, quello che scompare.
Pas de deux attraverso lo spazio che diventa viaggio nel tempo, Agnès e JR procedono per giustapposizioni, giochi di parole e motti di spirito, installazioni che stabiliscono un legame tra tradizione e modernità, memoria pastorale e proletaria e realtà quotidiana. Le discussioni e i rispettivi gesti artistici risvegliano lo spirito dei luoghi, evocano storie familiari con vibranti omaggi ai vivi e ai morti, riuniti dalla parola e dall'immagine. Avanzando a bordo di un cinétrain che scatta (e sviluppa) foto giganti, realizzano un film inventivo e sorprendente, libero e commovente.
Autori e attori con un differente ritmo di marcia e un diverso senso artistico dell'istantanea, Agnés e JR si interrogano sul senso del loro lavoro, sul valore delle immagini, della loro produzione, della loro democratizzazione. Di quelle immagini fanno un dono da offrire alle persone che incontrano, pellegrini anonimi, complici attivi, modelli e muse ispiratrici. E mentre JR fissa le sue grandi foto sui muri, sugli edifici, sui treni, sulle cisterne, sui container, Agnès, virtuosa del montaggio come Alain Resnais e Jean-Luc Godard, articola un film-collage di rime, sciarade verbali, immagini liriche.
Agnès e JR sposano formalismo e libertà, documentario e poesia in un film che, al di là del diario umoristico e la complicità tra i due 'protagonisti', mette in scena un confronto, legami, trasmissioni. Un film che ascolta uomini e donne raccontare il proprio mestiere, le origini, la famiglia, la loro relazione col mondo. Un film ancora che va dove va la vita, che vuole essere dentro la vita. Nella sua ultima (e toccante) tappa, sulle sponde del lago di Lemano, Visages, Villages si lancia invece alla ricerca di Jean-Luc Godard, eremita elvetico e deus ex machina (forse) nascosto dietro le sue persiane, a cui si aggrappa delusa e disillusa Agnès Varda. L'intervento inatteso e invisibile di JLG conclude in maniera struggente il viaggio di una signora che sta perdendo la vista davanti agli occhi dissimulati di JR. Riparato dietro lenti nere, che lo rendono immediatamente riconoscibile, JR cede le armi. Agnès chiede di guardarlo, JR li abbassa. L'epilogo bissa una prodezza lontana: nel cortometraggio Les Fiancés du Pont Mac Donald Agnès toglieva gli occhiali a Godard. Anche per JLG il rifugio è negli accessori.
Marzia Gandolfi, Mymovies.it, 22 maggio 2017
Quando ogni anno a Cannes si viene presi dalla disperazione rispetto al cinema del presente, rispetto alle confusionarie e finto-sperimentali riflessioni sull’immagine che imperano nel contemporaneo (ultima in ordine di tempo Jupiter’s Moon), ecco che ogni volta si trova un’ancora di salvezza. Che non può che venire dalla Nouvelle vague, e da quello che ne è rimasto. Una ‘nuova onda’ che ha l’imperitura caratteristica di essere per l’appunto sempre nuova e spiazzante, molto più di quel che viene presentato come ‘innovativo’.
Sono, queste, riflessioni che è inevitabile fare davanti al nuovo piccolo geniale film di Agnès Varda, presentato fuori concorso qui alla Croisette. Visages villages, che è co-diretto con l’artista visuale JR, è un viaggio malinconico e gioioso lunga la Francia di provincia, la Francia post-novecentesca che ha perduto i suoi tratti distintivi: una miniera abbandonata, un “campo di concentramento” per capre che vengono private di corna, un enorme appezzamento di terreno che viene coltivato da un’unica persona grazie all’ausilio della tecnologia.
È la Francia sparita quella che la Varda e JR, protagonisti assoluti di questo film-saggio cronachistico, intimo e sociale, percorrono e ‘impressionano’ con la videocamera e con la macchinetta fotografica. E di cui poi fanno dono alla popolazione con murales fotografici, che sono il marchio di fabbrica del giovane artista JR.
Ma Visages villages, che nel suo percorso nella Francia dimenticata ricorda – sia pur su un piano diverso – Jours de France di Jérôme Reybaud, presentato alla scorsa edizione della Settimana della Critica, è anche molto altro: è innanzitutto un mélange inestricabile di cinema e vita – come sempre nel cinema della Varda e, più in generale, nella Nouvelle vague – in cui si ragiona sulla vecchiaia, la malattia, la morte, ma anche l’amicizia.
Visages villages – questo gioco di parole puramente godardiano – infatti mette in scena prima di tutto la curiosa amicizia tra l’anziana Varda e il giovane JR (è lui che ha cercato lei e che ha voluto incontrarla), e lo fa con grande ironia: JR prende spesso affettuosamente in giro la Varda, e lei – nel suo ruolo di saggia vecchia/bambina – lo lascia fare.
I due si confrontano costantemente su come procedere nel film, su dove andare a viaggiare, su quali luoghi, volti e foto ragionare, costruendo così un discorso meta-cinematografico allo stesso tempo stratificato e semplice, immediato e ‘abissale’. Una mise en abyme che viene citata dalla stessa Varda, per un discorso concettuale che per l’appunto non si nasconde in simbolismi oscuri ma si palesa nella sua auto-evidenza. E infatti il disvelamento della piena consapevolezza del discorso lo si ha in un momento che è anche il più commovente del film: la Varda insiste per mettere la foto di un suo amico scomparso sulla parete di una vecchia rovina nazista della Seconda Guerra Mondiale, fatta cadere da un promontorio e conficcatasi sulla spiaggia, come un meteorite, un ricordo incancellabile e ‘scomposto’ di un passato doloroso; è lì che chiede che venga fatta questa operazione di mise en abyme (la foto, risalente a cinquant’anni prima dell’amico, tra altre rovine), ed è lì che, amaramente, deve constatare come, soltanto il giorno dopo, l’opera sia sparita, cancellata dalla forza oscura del mare. Le immagini durano per poco, ci dicono Varda/JR, ma durano comunque sempre più dei corpi e della loro caducità. E se poi le immagini muoiono, è il cinema a restare.
Un cinema che viene continuamente citato ed evocato, a partire dalla malattia agli occhi di cui soffre l’ottantanovenne Varda e che per questo deve fare delle iniezioni ai bulbi, secondo una modalità – come ricorda lei stessa – che non può non far venire in mente la celebre scena di Un chien andalou. Ma un cinema che, ancor di più, viene evocato perché la Varda stessa è cinema, vedova di Jacques Demy e amica – un tempo – carissima di Jean-Luc Godard. Così, nel finale lei e JR vanno a trovare l’isolato e burbero maestro, l’autore ormai inaccessibile ai più. Godard non si manifesta ovviamente, ma lascia scritta sul vetro una frase crudele e auto-citazionista (perfettamente nel suo stile) che fa piangere la Varda. Lei impreca contro di lui, ma non può fare a meno di ammirare anche quel gesto feroce: anche quello è cinema. Anche quella è vita…
Alessandro Aniballi, Quinlan.it, 19 maggio 2017