Critica
Nome di donna è un film che ha la raffinata attenzione di collegare il tema delle molestie sul lavoro ai disequilibri sociali in maniera chiara, asciutta e realistica e facendo del film un thriller psicologico non perfetto ma che coglie il tono giusto per raccontare l’argomento delle violenze dopo lo scoppio del movimento Me Too. Forse proprio ora si sarebbe potuto urlare di più ma al tempo della realizzazione del film, il basso profilo era forse lo strumento più giusto per non cadere nella spettacolarizzazione eccessiva del fenomeno. Non è poco per chi vuole costruire una storia di impegno civile raffinata ma anche lucida nel gettare luce su un abuso dalle forme sottili troppo stesso banalizzato e erroneamente collegato alla dimensione del desiderio. Nelle molestie sul lavoro, come racconta il volto emaciato della brava Capotondi nel ruolo di Nina, non c’entra l’attrazione, il libero scambio di affetti e godimenti, non c’è la costrizione fisica dello stupro, ma tutto è più subdolo e sottile. C’entra, al contrario, l’esercizio di potere che un datore di lavoro esercita su un suo subordinato per ottenere qualcosa che altrimenti non otterrebbe: una prestazione di lavoro a costo più basso, a condizioni più convenienti o addirittura altro, ossia una prestazione sessuale.
Giordana si sofferma bene su questo meccanismo che non lascia tracce palesi se non nell’anima e lo fa con il suo stile cupo, asciutto, sottilmente inquietante. Il film racconta la storia di una donna dal profilo sociale ‘fragile’ e tutte le minacce invisibili che si collegano a un abuso di potere di questo tipo. Il regista si sofferma sui volti, sulle atmosfere, sul dubbio e sull’inquietudine di chi si sente in trappola senza però poter mostrare i segni evidenti delle catene. Cristiana Capotondi dà il proprio contributo a un ritratto di donna molto attuale, una ragazza madre che è rimasta senza lavoro, che ha un compagno che non è il padre della bambina e con il quale ha un’unione sentimentale profonda ma dalla quale comunque non vuole dipendere economicamente in maniera esclusiva. È insomma una donna come tante che accetta l’amore ma vuole anche che esso non sia del tutto totalizzante. Così la ricostruzione approfondita del fenomeno delle molestie sul lavoro avviene mostrando tutti questi aspetti con puntualità e senza mai cedere al pathos. Il film è duro perché mostra anche una catena di orrori dove spiccano con efficacia i due personaggi abusanti e perpetratori di violenza: chi la compie, il personaggio di Valerio Binasco, e chi la copre, il personaggio di Bebo Storti; i caratteri forse più riusciti del film nella loro doppiezza, ambiguità e scorretta attitudine sul lavoro e non solo.
Ciò che invece soffre non è tanto il racconto del sistema che garantisce alle violenze di non emergere, cioè la paura, la complicità dei perpetratori, l’isolamento nei confronti di chi denuncia da parte delle altre vittime che però non si sono ribellate e che ora, come in uno specchio, vedono riflessa la loro condizione insopportabile, che è appunto accurato e drammaticamente coinvolgente, quanto la seconda parte del film che dal thriller, mai troppo calcato, si trasforma quasi in un legal thriller senza brivido e un po’ freddo. Così la parte dove la denuncia prende piedi e nella storia vengono coinvolti legali e sindacati fino alla conclusione finale del film, è la parte più debole di un film altrimenti chiaro e ‘forte’ al punto da correre il rischio di essere quasi didascalico ma riuscito. L’epilogo è forzatamente positivo, ma tutto il resto va visto senza voler voltarsi dall’altra parte, riconoscendo il coraggio di un regista che potrebbe urlare e invece mette in fila gli eventi con realismo e tocco autoriale.
Alessia Laudati, Film.it, 5 marzo 2018
Marco Tullio Giordana mancava dagli schermi cinematografici dal 2010, anno di Romanzo di una strage. Dopo alcuni film per la tv, tre anni fa si è imbarcato nella realizzazione di questo film che affronta una tematica taboo per il cinema e la società: la molestia di stampo sessuale sul luogo di lavoro.
Il film si sviluppa come un legal drama, che prima di arrivare in tribunale espone il problema in forma quasi di thriller, con alcune scene girate in modo tale da rendere l’idea di come l’abuso di potere perpetuato da Torri fosse diventato, coscientemente o meno, una sorta di rito di passaggio da cui le dipendenti passavano per avere assicurato il posto e anche degli aiuti supplementari.
In questa “normalità” si inserisce Nina, che ha come priorità il rispetto di se stessa e capisce subito come ci sia qualcosa di storto nel comportamento di colleghe e superiori. La parte più difficile è trovare la forza di sfondare il muro di gomma di omertà e di sfiducia che le si crea intorno.
Giordana rende bene chiari quali sono i nemici, quelli più ovvi: il comportamento malato del superiore, la reazione tesa a insabbiare lo scandalo della dirigenza ecclesiale, ma anche quelli inaspettati: i sindacati che vogliono usare Nina per portare l’azienda in tribunale, le colleghe che vogliono che Nina si adegui.
Raggelanti sono due battute; una collega apostrofa Nina dicendole, prima che lei incontri il superiore per la prima volta: “Perchè devi lavorare? Non hai un uomo che lavori per mantenerti? Allora è l’uomo sbagliato!” e la battuta della formidabile Adriana Asti, che qui interpreta un’anziana attrice ancora in attività che vive nella residenza anziani e che ricorda l’opinione di Catherine Denevue sulle molestie e sul movimento #metoo: “Molestie? Ai miei tempi si chiamavano complimenti”.
Queste due battute vanno pesate in modo diverso, ma in comune hanno l’opinione che la donna era costretta ad avere di se stessa: una persona passiva, che non poteva partecipare al suo benessere, quindi lavorare, ma che doveva riceverlo da altri, così come doveva accettare, in modo passivo, i “complimenti”, facendo finta di niente su quelli più pesanti.
Per quanto sia essenziale in tutta questa discussione mantenere una lucida distinzione tra molestia, violenza e, per citare nuovamente la Deneuve, la semplice goffagine di qualche uomo incapace di corteggiare in modo galante, il film pone finalmente il riflettore su di una quotidianità comune a molte donne che viene iscritta nella normalità ma che non rientra affatto nella normalità lavorativa, in cui tutti, di qualsiasi sesso, etnia e religione, dovrebbero avere la garanzia di riuscire a lavorare senza subire molestie di alcun tipo.
Alice Vivona, Cinefilos.it, 4 Marzo 2018