Critica
Se la vicenda di Chesley Sullenberger, detto Sully, il pilota che nel 2009 decise il destino di 155 persone, ci era sembrata la chiusura ideale dell’opera che Clint Eastwood sta componendo da anni, Richard Jewell è forse l’ultimo, spiazzante, protagonista del Pantheon che il regista americano ha dedicato agli eroi invisibili.
Quelli pronti a morire per il proprio Paese senza battere ciglio, che camminano nella folla, senza che nessuno lo sappia o possa riconoscerli. Ecco quindi un uomo sovrappeso e malato, che sogna di diventare poliziotto. Il volto e la fisionomia non lo aiutano (il bravissimo Paul Walter Hauser), eppure la sua missione è salvare e proteggere la gente.
È la ragione di vita di questo ragazzone che abita ancora con la madre (ottima anche Kathy Bates). Richard Jewell, in uscita per la Warner Bros. dal 16 gennaio, è ispirato a una storia vera.
Un fatto di cronaca rispolverato dal quasi 89enne Clint, che stavolta punta la pistola contro le storture dei media e l’incapacità dell’FBI. Dopo vari lavoretti, Richard diventa l’addetto alla sicurezza dei Giochi Olimpici estivi di Atlanta. È il 27 luglio 1996. Scopre uno zaino nascosto sotto una panchina.
Lancia l’allarme e la polizia cerca di allontanare le migliaia di persone, non abbastanza in fretta, perché la bomba esplode ma grazie a Richard si salvano in molti e i danni collaterali sono ridotti. Eroe per un giorno, anzi tre. Acclamato da ogni tv, forse un libro sulle sue memorabili gesta. Poi, l’inferno. In mancanza di altre piste da seguire, un agente del Bureau (Jon Hamm) si convince della sua colpevolezza.
Per tre lunghi mesi Richard sarà considerato un terrorista. E la madre paralizzata dalla beffa. Quando le accuse cadranno, anche per la bravura dell’amico e avvocato Watson (Sam Rockwell, sempre sorprendente), per lui non sarà più lo stesso.
L’infamia, il sospetto, gli resteranno appesi, come l’uniforme da poliziotto, infine conquistata. Un film potente, efficace e molto amaro.
Marina Sanna, Cinematografo.it, 13 Gennaio 2020
Basato sulla vera storia dell'"eroe di Atlanta" e su un articolo intitolato "American Nightmare", Richard Jewell conta fra i suoi produttori Leonardo DiCaprio e Jonah Hill e dà modo a Clint Eastwood di attingere di nuovo alla realtà per affrontare il modo in cui, soprattutto negli Stati Uniti, un essere umano viene issato sull'altare e poi gettato nella polvere sulla base dello storytelling che gli viene costruito intorno.
Lo stesso Eastwood conosce bene la claustrofobia di sentirsi cucita addosso una narrazione che non corrisponde alla propria identità: ha impiegato anni a smarcarsi dall'immagine di attore di scarso spessore e acquisire credibilità come autore cinematografico. Persino politicamente la narrazione che lo riguarda è sempre stata poco aderente alla sua reale complessità.
Richard Jewell è una parabola su come i centri di potere - qui i mass media e l'FBI - procedano ottusamente ad appiccicare etichette e ad affibbiare ruoli, indipendentemente da quanto rispecchino la vera natura delle persone. Ed è proprio la verità che risiede in Richard Jewell, e che non corrisponde alla profilazione di lui fatta, il cuore pulsante di questa storia.
Eastwood compie una scelta davvero radicale, che verrà probabilmente equivocata da quel pubblico che lo vede ancora come un reazionario: ovvero quella di calare la vicenda in un immaginario cinematografico riconoscibile principalmente attraverso le sue maschere. Così Jon Hamm è un ispettore dell'FBI anni '40 e Olivia Wilde interpreta la sua giornalista d'assalto come uno dei personaggi che hanno reso celebre Barbara Stanwick (e probabilmente indignerà chi si batte per una rappresentazione meno stereotipata e ingenerosa delle donne al cinema).
Clint invece punta il dito proprio sul modo in cui le persone trovano conforto in una narrazione ben codificata, nella quale fanno rientrare - o dalla quale espellono - le sfaccettature della natura umana. Anche l'avvocato del film, Watson Bryant, è un archetipo cinematografico: il cane sciolto, che agisce da solo e ha accanto una donna vera che lo ama sul serio - uno che legge Larry McMurtry e "crede a ciò che crede", non a ciò che gli viene raccontato.
È lui l'alter ego di Eastwood, mentre il protagonista che dà il titolo al film è solo una cartina di tornasole per raccontare un mondo in cui l'oscurità sta sempre dietro l'angolo: non a caso sono innumerevoli le scene in cui l'oscurità lambisce i margini dell'inquadratura, pronta ad inghiottire ciò che è flebilmente illuminato al centro.
Il "Repubblicano" Clint ci mette in guardia conto il rischio di trasformare il mondo in uno stato di polizia e di "diventare uno stronzo se ti danno il ruolo del tutore dell'ordine". E moltiplica all'infinito i suoi schermi mescolando innumerevoli tecniche di ripresa per rappresentare un'epoca in cui le versioni della verità si confondono, si rafforzano o si annullano fuori da qualsiasi logica o ragione: un mondo popolato da figuranti, in cui basta corrispondere allo stereotipo al momento impopolare per finire alla gogna.
Paola Casella, Mymovies.it, 2 gennaio 2020