MARTEDì 18 e MERCOLEDì 19 febbraio 2020 ore 15.30 - 18 - 20.30 GIOVEDì 20 febbraio ore 15 - 17.30 - 20 - 22.10 |
Regia
Gianni Amelio
Genere
BIOGRAFICO, DRAMMATICO, STORICO
Durata
126'
Anno
2018
Produzione
AGOSTINO SACCÀ PER PEPITO PRODUZIONI CON RAI CINEMA
Cast
ierfrancesco Favino (Bettino Craxi), Renato Carpentieri, Claudia Gerini, Livia Rossi, Luca De Filippo |
Hammamet, la cittadina tunisina nella quale Bettino Craxi visse gli ultimi sette anni della sua vita, ogni anno più ammalato. L'epilogo della vicenda umana e politica del leader socialista.
Con Hammamet Gianni Amelio affronta una pagina della Storia d'Italia sulla quale persiste una lettura contrapposta: Craxi era un "maleducato, manigoldo, malfattore, malvivente e maligno", o un uomo dalla statura fisica e politica imponente "circondato da nani", bersaglio di una "congiura contro la sua persona" più che contro un sistema di cui "tutti facevano parte"? Non Bettino Craxi ma Hammamet. Non chi, ma dove. Nel rileggere la vicenda – l’epilogo almeno, gli ultimi sei mesi – del leader del PSI, Amelio riparte da dove la narrazione nazionale lo aveva lasciato: Hammamet. Luogo dal sapore esotico, spazio reale e immaginario, di confino, fisico e psicologico. Il punto di forza di questo biopic senza nome è nella volontà di riaprire una discussione sugli ultimi 30 anni di storia italiana vagliandola con gli strumenti della psicologia collettiva, laddove Craxi incarna a un tempo la nostalgia del leader e il capro espiatorio, facce della stessa medaglia nella perenne tendenza del paese alla creazione e alla rimozione dei suoi totem. Ci sono figure che solo il cinema, in quanto arte, ha il potere di consegnare alla memoria collettiva in maniera diversa da come la storia e le cronache lo hanno fatto. La priorità dell'espressione artistica è scovare l'umano anche laddove sembrerebbe impossibile, distillando le ombre e filtrando i chiaroscuri.
Trama
Critica
Amelio e il suo team di sceneggiatori non forniscono una risposta univoca, e preferiscono concentrrsi sulla dimensione umana di Craxi e su quella scespiriana, kafkiana e sciasciana della sua storia pubblica, laddove il singolo diventa la cartina di tornasole di un modus operandi che non riflette solo le contorsioni e le viltà della politica ma il carattere stesso degli italiani, pronti a salire sul carro del vincitore e a scendere da quello del perdente.
Nessuno dei personaggi, nemmeno Craxi, è chiamato con il suo vero nome, e questo darà il via al gioco delle identificazioni: Vincenzo potrebbe essere Moroni, l'Ospite Fanfani, il Giudice è certamente Di Pietro, e così via. Ma ciò che conta è l'atmosfera crepuscolare della caduta di un uomo di potere mostrato all'inizio in uno dei punti più alti della sua ascesa, a quel 45esimo Congresso del PSI dove il suo viso era inquadrato al centro di un triangolo come l'occhio di Dio, e dove invece Amelio ci mostra già i garofani a terra, presagio del futuro di un partito che "non sopravviverà" all'egocentrismo e agli azzardi di quel capo che per primo l'ha portato alla Presidenza del Consiglio. E il commento musicale di Nicola Piovani decostruisce l'Internazionale, preannunciando i disfacimento del PSI.
Amelio rapporta la figura imponente di Craxi ai suoi spazi, da quelli esaltanti del Congresso a quelli spogli della Tunisia nei quali è impossibile nascondersi (come già ne Il primo uomo), mettendo a confronto l'infinitesimalità dell'Uomo, anche il più potente, con l'immensità dell'ambiente che lo circonda (come ne La stella che non c'è).
All'interno della storia giganteggia Pierfrancesco Favino, cui Hammamet appartiene tanto quanto ad Amelio, che incarna un Craxi più vero del vero nella voce, nel gesto, nella postura, e soprattutto nell'essenza drammatica. La sua non è semplicemente (!) una metamorfosi, ma l'interpretazione magistrale di un uomo dominato da pulsioni contrapposte: egocentrismo e senso dello Stato, orgoglio (anche italico) e arroganza, pragmatismo politico e assenza di cinismo. Un uomo il cui tempo è scaduto, ma la cui discesa crepuscolare verso la fine non riesce a privarlo della sua visione dall'alto.
A commento della vicenda craxiana Amelio allinea spezzoni di film (Le catene della colpa) e canzoni ("Cento giorni", "A modo mio", che nel suo "quel che sono l'ho voluto io" ricalca il "My Way" di Frank Sinatra), trasforma (genialmente) la Crisi di Sigonella in una battaglia fra soldatini, dà a Stefania Craxi (soprannominata Anita, come la compagna di Garibaldi, e molto ben interpretata da Livia Rossi) il ruolo di vestale e a Bobo quello del "cretino" (ma gli restituisce anche una dignità filiale).
L'unico passo falso è il personaggio di Fausto, ridondante rispetto alla storia, inadeguato nella recitazione fragile di Luca Filippi, che scompare accanto a quella di Favino: del resto il solo che riesce a tener testa all'attore protagonista (come al personaggio che incarna), è un altro gigante - Renato Carpentieri nei panni dell'Ospite.
Paola Casella, Mymovies.it, 8 gennaio 2020
Un tentativo, dicevamo, che si espleta nella riduzione di fenomeni complessi e contraddittori, come la fine della Prima Repubblica attraverso la scure di Tangentopoli, all’individuazione di un dove pacifico piuttosto che di un quando da analizzare, perché nel paese senza memoria, dove tutto si oblitera nell’indignazione, nell’avanspettacolo e infine nell’oblio, prevale la logica del calderone. Che è uno spazio appunto, non un processo.
Hammamet è un film già condannato, in ciò condividendo il destino del suo protagonista. Tra il dove eravamo del prologo – PSI primo partito, Craxi in inarrestabile ascesa, l’Italia quinta potenza industriale al mondo – e il dove siamo del finale (uno dei tanti, almeno), ovvero alla parodia, al varietà della storia e dei suoi protagonisti, non c’è sviluppo, ma una lunga e drammatica ellissi.
Condannato alla reiterazione del presente, il “presidente” non ha tempo (anche per via del diabete che lo sta consumando) ma solo la possibilità di uno spazio da cui evadere solo attraverso l’espediente della memoria e del sogno.
Quella stessa memoria tuttavia che tutto sembra fuorché di ferro, quando dimentica, non ricorda, cose dette solo qualche ora prima (al figlio di un suo compagno di partito) o eventi invece chiarissimi per i suoi familiari (come nel caso della moglie, che gli rammenta la figuraccia durante la visita alla regina d’Inghilterra) e che sembra alludere a quei cortocircuiti mnemonici di cui l’Italia tutta è affetta.
E se il film s’intesta, forse non con tutta la consapevolezza del caso, la volontà di raccontare la nostra storia recente partendo dalla “deposizione mancante”, dalla voce dei suoi sconfitti, non lo fa tanto per ribaltarne il giudizio – la verità di Craxi è la “sua”, con tanto di virgolette – ma per ristabilirne l’ampiezza prospettica, affiancando alla verità giudiziaria, quella storica, psicologica, politica. Nel farlo non scioglie le riserve, non confonde mai compassione e assoluzione, evidenzia semmai l’interrogativo, l’enigma dell’uomo di potere il cui vivere politicamente al di là del bene e del male, della salute e degli affetti, lo “confina” giocoforza al di là di ogni sistema, in una solitudine riempita essenzialmente dall’ego.
Alla fine il Craxi che fugge il giudizio delle procure è anche il personaggio che sfugge al giudizio tout court, tanto mimetico nell’impressionante riappropriazione di Favino, quanto imperscrutabile nella sua verità umana. Una sospensione che resiste alla concatenazione dei discorsi – fulminanti alcuni dialoghi scritti da Amelio con Alberto Taraglio – e ai tanti, troppi, indizi metaforici disseminati da Amelio.
Dopotutto la posta in palio, ancora una volta, non è sapere chi era Craxi, ma dove lo abbiamo messo, trasformarlo – attraverso lo stratagemma della re-inquadratura effettuata da un fantasmatico testimone “armato” di videocamera – da bersaglio a obiettivo (giocando con la duplice accezione del verbo shooting).
È un altro significativo rovesciamento prospettico, dopo quello dell’accusatore che diventa Traditore nel film di Bellocchio (sempre per il tramite attoriale di Favino). La sostanza dietro l’intimismo di facciata.
Nella loro diversità i due autori sembrano convergere su una nuova stagione del cinema politico italiano. Ecco il dove da cui ripartire. Dovere nostro provare a seguirli.
Gianluca Arnone, Cinematografo.it, 9 Gennaio 2020
Sospendere quindi qualsiasi giudizio storico e politico è stato necessario se non urgente per scrivere la recensione di Hammamet, il film (in sala dal 9 gennaio) con cui Gianni Amelio si avventura nel ritratto di Bettino Craxi che, al netto delle polemiche già ampiamente suscitate e che probabilmente continuerà a sollevare, merita la giusta attenzione. Per la poesia e la finezza con cui restituisce la complessità di una figura icona di un'era politica che concluse la sua parabola sotto a un lancio di monetine, ma soprattutto per lo straordinario trasformismo di Pierfrancesco Favino: immenso, shakespeariano, decadente. È lui la vera forza di questo affresco.
Hammamet arriva nel ventennale della morte del leader del PSI, la narrazione procede per stralci di intimità e visioni oniriche, che si fanno più insistenti, forse ridondanti, nell'ultima parte del film. Della dimensione politica lo spettatore vedrà ben poco: solo la straniante scena iniziale, un prologo prima dei titoli di testa dove il volto di Craxi campeggia sui maxi schermi della Piramide di Filippo Panseca, durante il 45° congresso socialista all'ex Ansaldo di Milano. Subito dopo la camera si sposta sui garofani lasciati a terra e sulle bandiere di partito ammainate: toccherà invece a un piano sequenza sulla corsa di un gruppo di bambini urlanti, portare il pubblico nella dimensione privata che Gianni Amelio ha scelto per raccontare il protagonista di questa storia. È la Tunisia della latitanza, quella in cui Bettino Craxi era fuggito nel 1994 per sottrarsi alle condanne per corruzione e finanziamento illecito al partito. Ad Hammamet, dello statista che si ergeva trionfante dal palco dell'ex Ansaldo rimane ben poco: è un uomo stanco, malato, claudicante, infilato in un paio di scarpe di tela, "vittima di se stesso, del suo orgoglio, della sua arroganza smisurata" e che adesso somiglia molto "ai nani di cui si è circondato".
È un film senza nomi: Bettino Craxi è semplicemente "il Presidente", la figlia Stefania (Livia Rossi) è Anita, come la moglie di Giuseppe Garibaldi, figura a cui era molto legato: ce lo ricorda la scena che lo sorprende a intonare "Garibaldi fu ferito". Rimangono anonimi i vari volti che andranno a fargli visita nella villa di Hammamet: dall'amante (Claudia Gerini) all'ospite inatteso, un vecchio democristiano (Renato Carpentieri). Si chiama invece Fausto (Luca Filippi) il misterioso ragazzo che piomberà negli ultimi mesi di vita del leader, figlio di un compagno di partito morto suicida; un personaggio di fantasia, alla cui ambiguità il regista affida il registro del thriller.
L'atmosfera intorno è crepuscolare e a tratti grottesca, cadenzata sullo sfondo dall'ingenua esultanza di alcuni programmi dell'epoca, o dagli spari e dalle voci dei western in bianco e nero, che arrivano dalla tv perennemente accesa. Un andamento noir che per osmosi finisce per trasferirsi all'intero film; il resto lo fa una colonna sonora che segna la prima collaborazione di Nicola Piovani con Amelio, una partitura che riecheggia L'internazionale "frantumata, spezzata" come la definisce lo stesso regista.
Hammamet non sarebbe stato però lo stesso senza Pierfrancesco Favino, che scompare sotto il rituale di ore e ore di trucco, regalando al personaggio la statura di una figura tragica e insieme di spietata ironia: un Re Lear nel suo rapporto con la figlia, che combatte strenuamente per riabilitarlo. Favino cannibalizza l'intero film, giganteggia dall'inizio alla fine, è superbo in un'interpretazione che dalla camminata alla voce, ai piccoli tic, ai gesti va oltre la pura imitazione, conquistando un posto d'onore nell'Olimpo delle performance da Oscar. Bravissimi anche i comprimari dalla sempre misurata Livia Rossi alla caratura di Renato Carpentieri, passando per la fragilità di Alberto Paradossi (il figlio Bobo); meno brillante la recitazione di Luca Filippi, poco incisiva e priva dello slancio necessario a tener alto il livello del film. Una metafora sul potere e sul tramonto di un'epoca, prima che un melò come nelle intenzioni del regista, che cita Douglas Sirk e Jacques Tourner.
Elisabetta Bartucca, Movieplayer.it 9 gennaio 2020
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