Critica
Bentornati nel Regno di Oz-petek dove non esistono solo due sessi, dove si mangia e si balla insieme su una terrazza romana (in zona Ostiense), si vive fra sfumature smaltate color lapislazzuli e si mostra il cuore, qualche volta litigando ad alta voce, qualche altra guardandosi intensamente negli occhi.
Il registro è più musicale che cinematografico, a volte da opera, a volte da operetta. E a tratti c'è solo il silenzio di quando si ha veramente paura. Nei suoi momenti migliori il film si libra con l'afflato lirico di un'aria verdiana, come la canzone di Mina e Fossati che fa da libretto; nei passaggi meno ispirati intrattiene come una canzonetta estiva di quelle con i movimenti ripetuti tutti insieme, perché il cinema di Ozpetek è codificato nell'immaginario collettivo e la ripetizione fa parte del suo richiamo.
Il genere è a metà fra la commedia romantica e il melodramma, ma sono molti i momenti horror: dal lungo piano sequenza iniziale che va a stanare due bambini chiusi in un armadio-sarcofago al murale dove sono disegnati teschi e piccoli impiccati; dalla stanze asettica di un ospedale a quella spettrale di un defunto alle strade che, quando perdi di vista un bambino, diventano i corridoi di un labirinto. Eppure questo film che, come consuetudine ozpetekiana, parla anche di malattia e di morte, ha un'energia vitale insopprimibile che tracima nella risata liberatoria, nella commozione struggente, nella dolcezza del riconoscersi parte di un'umanità dolente e spaventata.
La dea fortuna ha un odore, una palette di colori, una consistenza tattile che ci invitano a condividere la tavola (bella la sequenza iniziale che fruga in mezzo al buffet di un matrimonio) e persino il letto dei suoi personaggi confusi e infelici.
Parte della sua forza è il cast, in particolare Edoardo Leo nel suo ruolo migliore, quello di maschio alfa nel bene e nel male, sensuale e irruento, empatico e "incapace". La naturale tendenza alla concretezza e alla mancanza di artificio di Leo controbilanciano efficacemente la tendenza di Ozpetek alla sdolcinatura e all'eccesso, e l'attore resiste eroicamente alle frasi fatte (che non mancano) e scoppia a piangere in camera senza perdere in virilità. Altrettanto efficace la piccola Sara Ciocca, già apprezzata ne Il giorno più bello del mondo, istinto naturale verso il vero più che e il verosimile.
La dea fortuna parla di quanto sia difficile e meraviglioso innamorarsi di nuovo di chi hai vicino, e fa della demenza una virtù che ci aiuta a dimenticare i torti subiti e a guardare ogni giorno il nostro partner come se fosse la prima volta. Parla di come non si debba avere paura di rompere le cose perché si possono (quasi sempre) aggiustare, di come nessuno "la racconta giusta", principalmente a se stesso, e siamo tutti "nati inguaiati" (anche se sono gli altri ad interpretare la diversità come un guaio). Un universo dove lo spavento esistenziale è dietro l'angolo, ma se restiamo insieme fa meno paura, e ritroviamo luce, aria, respiro.
Paola Casella, Mymovies.it, 18 dicembre 2019
Crepuscolare, decadente e ironico. Ma anche colorato, palpitante di personaggi problematici e sbandati e inondato da una colonna sonora che lo abita dal primo all'ultimo minuto: Mina, Fossati e Diodato. Non possiamo che partire da qui mentre scriviamo la recensione de La Dea Fortuna, tredicesima regia di Ferzan Ozpetek in sala dal 19 dicembre. Un film che fa dell'inclusività, del dolore e della malattia il proprio cardine, riportando il regista italo-turco alle calde atmosfere degli esordi, al cinema sospeso e multietnico de Le fate ignoranti o di Saturno contro, dove ogni pezzo sta esattamente dove dovrebbe essere.
Dopo alcune parentesi non proprio fortunate, tutto finalmente torna a funzionare: l'alternanza di melò e commedia accompagnerà lo spettatore nel mondo caro a Ozpetek popolato da coppie in crisi, famiglie disfunzionali, terrazze romane, palazzi storici e ci si commuoverà davanti alle inattese svolte della vita. La narrazione è equilibrata, i personaggi ben caratterizzati, gli attori in scena in stato di grazia: straordinariamente autentici e credibili in un ritratto dell'amore che invecchia e trascolora in qualcosa di diverso dalla passione.
Basta il lungo piano sequenza iniziale a dare la misura dei toni e delle atmosfere del film: La Dea Fortuna si apre così, con un tuffo della macchina da presa che sgattaiola in un labirinto di corridoi, stanze e pareti affrescate da antiche immagini di morte, per poi staccare sulle più gioiose scene di una festa di matrimonio sopra i tetti di un quartiere popolare di Roma. La storia che ne seguirà, ispirata da una vicenda personalissima del regista, è quella di Arturo (Stefano Accorsi) e Alessandro (Edoardo Leo), una coppia consolidata, che si porta sulle spalle più di quindici anni di vita insieme.
La passione e l'amore però si sono trasformati e la loro relazione è ormai in crisi da tempo. A dare lo scossone finale sarà l'irruzione nelle loro vite di due bambini, Martina (Sara Ciocca) e Alessandro (Edoardo Brandi), lasciati in custodia per qualche giorno da Annamaria (Jasmine Trinca), la migliore amica di Alessandro, madre single costretta da alcune frequenti emicranie al ricovero in ospedale per una serie di accertamenti.
Con questo film Ferzan Ozpetek si riappropria della componente emotiva e umana, che aveva caratterizzato tutta la prima parte della sua produzione filmica e che negli ultimi anni si era andata lentamente perdendo, e si abbandona ad una sincera esplorazione del sentimento amoroso dopo l'impeto del desiderio iniziale perché, si sa, "i principi azzurri scolorano col tempo", come recita una battuta del film.
Nessuna eccentricità, via le scene di sesso a favore di abbracci e baci affettuosi, e di una più tenera e matura riflessione sui rapporti sentimentali: che siano quelli di una coppia gay giunta quasi al capolinea e avvezza ai tradimenti o che si tratti delle dinamiche affettive di una famiglia allargata, poco importa. È l'amore in tutte le sue sfumature a farla da padrone, insieme a una narrazione dell'assenza e del ricordo, di case che parlano attraverso stanze stracolme di oggetti, affacci, finestre e porte che separano o riuniscono. Su tutto impera la "dea fortuna" del titolo, il caso imprevedibile e meschino, da cui però a volte è bene lasciarsi sorprendere.
Il merito di un film così accorato è di una sceneggiatura coraggiosa e piena di umanità, firmata da Ozpetek insieme a Silvia Ranfagni e Giovanni Romoli, che si lascia perdonare, soprattutto nella seconda parte, alcuni momenti didascalici, stereotipati o a rischio glicemia. Menzione speciale all'intero cast, che lavora per sottrazione e rigore restituendoci quella variegata comunità di personaggi più volte ritratta dal regista nelle sue storie. Sono figure vere e reali, da un dolente Stefano Accorsi nei panni dell'intellettuale fallito, a Edoardo Leo che affrancandosi dal territorio della commedia regala la giusta misura al ruolo dell'avvenente compagno, un macho dal cuore tenero.
A Jasmine Trinca spetta invece la parte della "madre coraggio", sofferente, malinconica, donna di origini nobili a cui a suo tempo ha deciso di ribellarsi, tagliando definitivamente i ponti con la propria famiglia. La cifra che li accomuna è la tenerezza, a cui si sottrae invece un'inedita Barbara Alberti nelle vesti di una vecchia megera quasi da brividi. L'immaginario di Ozpetek è tornato: preparatevi ad accoglierlo con tutti i suoi pregi e i suoi difetti.
Elisabetta Bartucca, Movieplayer.it, 19 dicembre 2019