Critica
Ci vuole coraggio e tanta ambizione per portare ancora una volta al cinema la storia di Vincent Van Gogh dopo i film, tra gli altri, di Vincent Minnelli, Robert Altman e Maurice Pialat. Ma Julian Schnabel, il cui ego è grande come le tele che l'hanno reso celebre, da pittore ama confrontarsi con i suoi colleghi grandi e più piccoli. Ha iniziato al cinema nel 1996 con 'Basquiat' e ora torna sul grande schermo, e applaudissimo in concorso al festival di Venezia, con 'At Eternity's Gate' che vede come protagonista assoluto, nei panni del grande pittore olandese, Willem Dafoe: «È la persona a cui avevo pensato da subito. Ci conosciamo da trent'anni e l'ho visto tante volte aiutare gli altri attori a recitare, sapevo che sarebbe stato il mio migliore alleato». Il regista sceglie di soffermarsi sugli ultimi e più tormentati anni di Van Gogh, dal rapporto - bello ma complicato - con Gauguin (Oscar Isaac) fino al colpo di pistola che gli ha tolto la vita a soli 37 anni. (...) sia a Schnabel che al suo grande sceneggiatore Jean-Claude Carrière interessava di più rappresentare l'artista nell'atto del dipingere per cercare di mostrare la difficilissima emozione pittorica: «Penso di aver detto tutto quello che si poteva dire della pittura in questo film. Sono un pittore da quando sono piccolo e so tante cose su Van Gogh ma tutto questo, comprese le informazioni e gli studi sulle lettere e sui diari, sono stati solo un punto di partenza. Quello che volevo veramente mostrare era l'assenza di pensiero che Van Gogh diceva di provare mentre dipingeva. Per lui era una forma di meditazione. lo ho cercato di mettere in scena, con un approccio sensoriale, l'equivalente delle sensazioni che si possono avere quando si vede un' opera di arte», dice il regista che si è presentato in conferenza stampa in maniche di camicie e pantaloni corti. A sorpresa il Van Gogh che viene fuori dal film è quello di un uomo certamente tormentato ma non poi così matto come il mito vorrebbe: «Se guardiamo ai suoi dipinti e leggiamo le sue lettere è evidente che lui fosse lucido e sapeva esattamente dove era. Aveva però capito che non sarebbe andato tanto avanti nella vita e per questo era molto interessato a mettere nella pittura il riferimento al suo rapporto con l'eternità». Da qui il titolo originale del film Sulla soglia dell'eternità.
Pedro Armocida, 'Il Giornale', 4 settembre 2018
Van Gogh ha le tele e il treppiedi sulle spalle a mo' di zainetto, cammina svelto attraversando i campi di grano, e lo spettatore in quei primi piani ossessivi cammina con lui, accecato dal sole della Provenza che penetra nello schermo. Si siede, allarga le braccia come Cristo in croce, mentre il vento sferza il grano giallo, e pensi che Willem Dafoe (è lui a ridargli vita) aveva portato la passione di Gesù al cinema, prendendosi una pausa dai suoi ruoli di carnefice. Qui torna borderline, col suo volto lavorato dal tempo, la fronte solcata dalle rughe. L'attore americano ha 63 anni, Van Gogh 37 quando morì, eppure la differenza d'età, sotto il cappello di paglia che portava come una divisa, non si nota proprio. Accolto da un grande applauso, 'At Eternity's Gate' è un viaggio nella mente di Vincent Van Gogh: è il ritratto personale di Julian Schnabel (lo ha scritto con Carrière) che non è solo regista ma pittore, l'omaggio di un artista a un altro artista.
Valerio Cappelli, 'Corriere della Sera', 4 settembre 2018
Pittore celebre negli anni Ottanta, Julian Schnabel si converte al cinema negli anni Novanta e realizza il suo primo film su un soggetto seducente ma cimentoso (Basquiat), evitando i rischi maggiori (agiografia melensa e glamour smaccato) e procedendo per tocchi fugaci.
Un film su un pittore è raramente realizzato da un pittore ma Schnabel ne gira addirittura due. Ventidue anni dopo trasloca in Francia per raccontare il bisogno permanente di Van Gogh di dipingere. Come fu per Basquiat, l'autore americano non cerca di penetrare l'enigma della creazione, che appare un'acquisizione indiscutibile (anche) nel personaggio di van Gogh. Ad appassionare Schnabel è quello che rivela la relazione tra il pittore olandese e Paul Gauguin, tra l'artista dei girasoli bruni e il suo tempo.
Trasportato come van Gogh dalla luce della Provenza, Schnabel coglie quel passaggio folgorante di cui non resta niente ad Arles, alcun quadro, alcun edificio a parte un modesto impasse intitolato a suo nome. Tutta la storia di van Gogh, come quella di Gauguin, è segnata dal destino, marcata dall'insuccesso, l'incomprensione e alla fine l'isolamento. Dei campi di grano, del fogliame d'autunno, dei cipressi monumentali, dei giardini selvatici, dei fiori floridi, dei fondali gialli, dell'arancio ardente dei crepuscoli, del colore rovesciato sulla tela come magma incandescente, i suoi contemporanei non sapevano che farsene. Alieno al mondo che lo circondava, l'artista esprimeva un malessere profondo, una disperazione totale e una lucidità intensa, che lo rendeva sovente odioso agli altri.
Il volto lungo di Willem Dafoe, che lo incarna, non rivela alcun recesso in cui potremmo infilarci per meglio comprenderlo, la sua performance in economia, la sua maniera scostante, gli sguardi scollati, la tensione nervosa dimostrano che il pittore non era né folle né malato. Al contrario Schnabel rappresenta con dolorosa acuità la sua situazione di uomo economicamente dipendente dal fratello.
Intingendo in una palette a immagine della sua anima tormentata, l'attore insegue la ricerca di van Gogh di un posto nella società, il suo desiderio di essere riconosciuto. Quello che interessa al regista è rendere conto del mondo nel quale viveva van Gogh, dove l'impressionismo era l'arte dominante, perché è in quel mondo che ritroviamo le convenzioni sociali che lo rigettano.
Anima errante nel bagliore dei colori e nell'oro dei campi, van Gogh non poteva dimorare, non poteva seguire una norma di comportamento o creare una famiglia come il fratello Theo. Nel suo stile paranoico e tempestoso, Antonin Artaud scriveva che era stata la società a uccidere Van Gogh. Senza affermare le cose in maniera così tranchant, Schnabel incarna tuttavia i colpevoli rovesciando la tesi del suicidio e interpretando in maniera troppo didascalica la sua (misteriosa) morte. Ma più verosimilmente è la lucidità che ritorna a ucciderlo come un proiettile e come confessa al dottor Gachet di Mathieu Amalric.
Schnabel manca forse l'appuntamento con Vincent van Gogh ma afferra l'idea che un artista è in parte determinato dai luoghi e dagli usi del suo tempo, mortale, irrimediabilmente mortale. Vincent van Gogh non era un essere sacro, il suo genio non era un mistero divino, la sua arte nasce dal dubbio, il dolore e il sudore, dentro l'impossibile previsione del futuro. Alle torsioni delle sue tele, il regista risponde con gli strumenti del cinema provando a suo modo a governare il caos.
Marzia Gandolfi, Mymovies.it, 3 settembre 2018