Critica
Nella prima scena di Finché prosecco c'è speranza, il personaggio di Rade Serbedzija, il burbero conte che produce vino con metodi rigorosamente naturali e che dopo pochi minuti morirà suicida, spiega col calice in mano che solo da grande ha capito il senso della frase che gli diceva sempre il nonno: "Quando un giorno questa terra sarà tua, ricordati che anche tu sarai suo".
Lo mette in chiaro da subito, Antonio Padovan, il suo esordio è prima di tutto un film sulla sua terra, sul terroir dal quale proviene, lui che poi si è trapiantato a New York, e che dall'America ha riportato con sé solo qualche suggestione estetica.
Mentre seguiamo l'ispettore Stucky nelle indagini su questo misterioso suicidio, e su alcuni assassinii che fanno seguito, e che sembrano essere tutti collegati, ci perdiamo tra le colline del prosecco, ammirandone i profili e i filari delle viti, le grandi ville del passato, i borghi che le costellano, perfino il centro di Treviso, con quella casa bellissima che lo Stucky di Battiston divide con uno zio persiano (Babak Karimi) in Vicolo Dotti.
E sì, quel territorio è bellissimo, e quel cementificio che lo minaccia una vergogna, e recuperare il rapporto con la terra rispettandola, sono il simbolo di una esigenza di sostenibilità che, però, Finché c'è prosecco c'è speranza suggerisce di applicare anche alle esistenze delle persone.
Tra le campagne e i paesini, con quelle atmosfere da placido e sottile giallo inglese a cui Padovan si è rifatto, Stucky si muove con una soave mollezza un po' goffa che non è solo figlia dell'insicurezza, di un'umanità che troppo spesso al cinema viene negata, ma anche di quella volontà di fare ma non strafare che sembra comune, in qualche modo, a tutti i personaggi del film.
Sostenibilità insomma non è solo rispetto per l'ambiente, non è solo fare il vino in un certo modo, non è solo non inquinare, ma è anche un modo di vivere la vita, di affrontare le cose e i problemi che ci si parano di fronte, o che abbiamo sulle spalle.
Sostenibiltà, allora, per citare ancora il monologo iniziale, è lasciare qualcosa di incolto, di non fatto, "per non esagerare, per chiedere alle cose un po' meno di quello che ti possono dare." Alle cose, sì, e magari anche alle persone, a noi stessi. Non per pigrizia, o negligenza, ma per non esaurirsi: per non correre quando non c'è alcun reale motivo di farlo
Alle cose, alle persone, e forse anche al cinema, visto che Finché c'è prosecco c'è speranza (che non ha preso un soldo dai produttori di vino, e che non cede alla facile tentazione di cavalcare l'onda dell'enogastronomia imperante, tanto che Stucky è uno che di vino non capisce nulla), sembra muoversi con intelligenza all'interno di una cultura slow, qui applicata alle immagini e al racconto, che permette di assaporare al meglio i gesti, gli intrecci (anche quelli sentimentali, appena accennati, tra Battiston e Liz Solari), gli attori, e quei bellissimi paesaggi.
Federico Gironi, Comingsoon.it, 30 ottobre 2017
Giallo, con bollicine. Una sfida vinta, quella di produttori (la K+) e autori di Finché c'è prosecco c'è speranza: non solo nel porsi, fieramente, al di fuori delle consuete rotte geografiche della cinematografia nazionale, ma anche nel proporre, ardire, un genere – il giallo – oramai relegato da tempo al piccolo schermo (tra preti, forestali, figure e animali vari, tutti nel solco di una confezione piatta e innocuamente televisiva).
Tratto dal romanzo omonimo di Fulvio Ervas (2010, edizioni Marcos Y Marcos), qui in veste di co-sceneggiatore, l'opera di debutto nel lungo del giovane Antonio Padovan si caratterizza per una freschezza e una vitalità salvifiche, frizzanti.
Un sorso – invero, molti … – di prezioso paglierino da godere con la soddisfazione e la consapevolezza della qualità delle cose semplici e di alta qualità: all'alta tracciabilità del prodotto corrispondono sincera applicazione e sano gusto per la materia filmica.
Un'opera sì, evidentemente, legata in maniera forte e piena al “territorio” – termine abusato e svuotato di significati concreti, dal momento in cui ce se ne è appropriati per biechi motivi di opportunismo politico –, peraltro ben fotografato dal veronese Massimo Moschin (che per questo ha vinto un premio al Cape Town International Film Market & Festival da poco concluso), ma in grado di tradurlo in atto concreto e funzionale, sostanziale.
Se testo e forma propendono al poliziesco all'italiana – inequivocabile la locandina che rimanda all'immortale collana Mondadori – l'ambientazione, tra le splendide colline e antichi casati del Prosecco (location Conegliano, Treviso, Valdobbiadene, Farra di Soligo), trascende a espressione identitaria, a paesaggio dell'animo (veneto, italiano, umano).
Un personaggio estremamente affascinante e complesso, claudicante e ferito, proprio come il conte Ancillotto, fierissimo produttore di vino legato alla terra, interpretato da Rade Serbedzija (già indimenticabile “poeta” nel bellissimo Io sono Li di Andrea Segre); capace di mostrare – e mostrarsi – tanto la superba bellezza quanto gli sfregi fisici e interiori.
In filigrana, infatti – ma solo apparentemente: i sottotesti sono fragranti note di fondo, persistenti dopo il passaggio dell'amabile sostanza principale, – questioni sentite e controverse, oggetto di quotidiana battaglia sociale e politica: quella dell'immigrazione/integrazione (non a caso il protagonista, Stucky, è per metà di origine persiana) e le brutte faccende inerenti lo sfruttamento del territorio.
Da una parte l'iper-produzione vitivinicola, con prezzi alle stelle e conseguente perdita di antichi, genuini valori; dall'altra, innanzitutto, l'infausta presenza, con immancabili coperture in “alto”, dei grossi organismi industriali che rigettano a ciclo continuo nella natura circostante veleni e gas tossici (l'affaire-Pfas è una tristissima realtà proprio delle province venete, tra Vicenza e Verona).
Ma il giallo esige il suo peculiare percorso: un'assunzione piacevole e piacevolmente familiare, leggera e consistente, che lascia fragranti sensazioni di appagamento. Una storia innescata da un suicidio eccellente (il conte Ancillotto, figura discussa ma anche amata, in perenne lotta con loschi “colleghi” della confraternita del Prosecco) seguita da omicidi altrettanto clamorosi e plateali.
Un classico.
E un neo-ispettore – il corpulento Stucky (Giuseppe Battiston, in formissima) – a cui spetta il compito di trovare un filo comune, sbrogliare la scottante matassa, svuotare la bottiglia di segreti e bugie, connivenze e omertà.
L'intreccio ha una sua rassicurante strada, tra personaggi sui generis (non mancano lo scemo del villaggio, interpretato da Teco Celio, il superiore cinico – Roberto Citran –, la forestiera, la governante, la giovane amante …), contesti piccoli e (rac)chiusi e colpi di scena architettati con semplicità e gusto.
Sebbene, va detto, lo scafato giallista intuirà anzitempo il colpevole: un istante preciso, infatti, è ingenuamente troppo rivelatore (un'inquadratura su un dettaglio che dura un secondo di troppo seguita da scambio di battute), ma è un gioco a cui ci si presta volentieri, una bevuta in compagnia a cui non si può rinunciare.
Anche in virtù di una gestione del ritmo e dei tempi impeccabile, e di un'azzeccata, ottimamente dosata, brezza di commedia che dona ancora maggior sapore e solidità, credibilità: insomma, niente situazioni da farsa conclamata né “caciaroneria” diffusa.
Solo garbati spirito e attitudine, caratterizzanti sia di un'identità sentita e inconfondibile che di un'ironia pregna, pungente ma mai invadente.
Come le note di una colonna sonora – tra gli altri, di Teho Teardo – raffinata e coinvolgente, che accompagna la visione di un'opera “piccola” che delizia (e causa dipendenza).
Proprio come un calice di ottimo Prosecco.
M. Valdemar, Filmtv.it, novembre 2017