Critica
Se dovessimo spiegare a qualcuno l'espressione "buon diavolo", Riko sarebbe un esempio perfetto: tradisce la moglie senza troppa convinzione, e soffre all'idea di scoprirsi tradito; sprona il figlio a cambiare, ma è lui il primo a non farlo; insacca carne di maiale come un automa, sperando di non dover vendere la casa di famiglia. E la sera si rinfranca giocando a scopa con gli amici, o ciondolando con loro in giro per la provincia emiliana. Riko si lascia vivere; finché, significativamente proprio in mezzo a una manifestazione a cui non aveva neanche deciso di partecipare, rischia di morire, e allora cambia il suo punto di vista sulle cose.
A vent'anni da Radiofreccia, suo esordio registico, e a sedici dal suo secondo film, Da zero a dieci, Luciano Ligabue torna a girare un'opera che lui stesso definisce "sentimentale", perché incentrata sui sentimenti di Riko e della sua scalcinata compagnia emiliana. Finalmente "Liga" aveva di nuovo una storia da raccontare, e con Made in Italy parte dall'omonimo concept album per passare dallo strumento che conosce meglio, la musica, a quello cinematografico, che ha sempre maneggiato con grande naturalezza. Come se i sentimenti, per venire espressi, necessitassero solo della sincerità, spinta motrice di Ligabue e suo primo obiettivo.
"E questa sera vado fuori - sento troppa compressione - meglio uscire che scoppiare io e il mio amico Carnevale". Recitano così i versi della terza traccia dell'album, che corrisponde piuttosto fedelmente a una scena del film. Riko (Stefano Accorsi) sembra girare a vuoto, come fa un'elica quando il motore è già spento. Assiste impotente ai licenziamenti di diversi colleghi, che come lui non sono vecchi ma neanche più giovani. E c'è una casa da mantenere, quella di famiglia: venderla sarebbe una sconfitta, ma conservarla si conferma una preoccupazione costante. Riko è operaio nel salumificio dove lavorava suo padre, quasi da lui avesse ereditato non solo la casa, ma la vita tout court. Una vita che adesso gli sta stretta e che sembra non riconoscere più: ha sposato Sara quando entrambi erano molto giovani, e adesso sembra che tutti e due abbiano recriminazioni importanti da farsi, che non vogliono ancora affrontare. Quindi cenano insieme, arrabbiati: "questo muro duro e trasparente - ci vediamo ancora ma non passa niente - vittime e complici - di questa storia andata - in qualche modo prosciugata", recita la quarta traccia. Uno dei pochi aspetti sinceri della vita di Riko sembra il suo rapporto con l'amico Carnevale (Fausto Maria Sciarappa), un nome insieme allegro e malinconico, che si adatta perfettamente a questo buontempone con la fissazione per il gioco e il cuore malato, che consiglia Riko per il meglio ma che, come lui, non è in grado di applicare tali direttive alla propria vita.
Il personaggio di Sara è senz'altro uno dei più sfaccettati, e viene interpretato magistralmente da Kasia Smutniak, tanto da aver fatto dire a Ligabue, a riprese finite, di essersi perdutamente innamorato di "Sara Smutniak". Bella ed espressiva, non più ragazzina, Sara non rinuncia a rivendicare la vita che vorrebbe, e un giorno affronta Riko con rabbia e coraggio, ammettendo i propri sbagli con sensi di colpa più profondi di quanto la situazione richieda. Lui, visibilmente scosso ma più pavido di lei, per tutta risposta reclama la cena a tavola. Ma il giorno dopo la osserva con amore attraverso la vetrina del negozio presso cui lavora come parrucchiera. E dopo tanto tempo si scambiano uno sguardo di rappacificazione. Sara è pragmatica: mette da parte il proprio dispiacere per un aborto di diversi anni prima che l'ha segnata intensamente. E si asciuga le lacrime che ha mostrato alla moglie del collega di Riko, in una delle scene più toccanti del film; dopo un pranzo in campagna in cui sono stati accolti come parenti da questa nutrita famiglia straniera che produce, per usare le parole di Sara, un "bellissimo casino". "Vittime e complici - ma basta coi ricordi - per dirsi tanto adesso è tardi": Sara è presente quando c'è da esserlo. E se il marito finisce nel letto di un ospedale romano, lei ha già prenotato una stanza lì vicino. Se dopo un susseguirsi di sfortune il marito perde ogni motivazione, lei lo imbocca urlando. Piange di nascosto e ride quando ritrova la pace: quando c'è da rinnovare le promesse del matrimonio, durante una cerimonia kitsch officiata con scurrilità da un loro amico, o quando una cliente al negozio non fa altro che chiacchierare. A differenza di Riko, Sara non si lamenta.
Se Sara non si lamenta, Riko non fa altro. "Sono lì da una vita, con una specie di preservativo in testa a insaccare carne di porco, e mi dico: io son quello lì?". E anche Carnevale non lo sopporta più: "Cambia città, lavoro, famiglia, ma soprattutto, per favore, cambia te, invece di aspettare il cambiamento". Perché Riko metta in pratica queste parole che gli risuonano dentro, però, deve rimettere in asse il suo punto di vista. Durante una gita romana con gli amici, si trova coinvolto quasi per scherzo in una bellicosa manifestazione pro-Articolo 18, e rimane ferito negli scontri con la polizia.
Così, se poco tempo prima assisteva sconfitto ai licenziamenti dei colleghi o era un turista divertito nel mezzo di una manifestazione, adesso, con un cerotto sulla fronte, si rende conto che Sara è lì, che Carnevale è lì, e che il mondo non fa vomitare, come diceva a Carnevale, ma che è bellissimo, come gli rispondeva il suo amico. E torna a dar valore a tutto ciò che fino al momento prima deprezzava: gli affetti, i colleghi. Ma questo film rappresenta la vita realisticamente, non come una linea ascendente, bensì ondulata, fatta di alti e bassi. E al dolore successivo, Riko perde la speranza, fatica a ritrovare la sua identità. Persa quella lavorativa, non si riconosce più, cessa momentaneamente di esistere, non mangia più. Per fortuna Sara è sempre presente e, se deve lamentarsi del cattivo odore del marito, lo fa con l'amica.
Licenziamenti improvvisi, ingiustizia fiscale, spostamenti in avanti di pensione: Riko è un personaggio arrabbiato con il proprio Paese, e allo stesso tempo ne è disperatamente innamorato. Adora la sua cittadina emiliana, come Ligabue, e in quella goliardica luna di miele sceglie con Sara solo mete italiane, come pochi altri connazionali farebbero. E medita con gli amici sul perché nessun italiano vada in vacanza a Roma; mentre Roma è meravigliosa, e in quegli scorci notturni tra i ruderi Riko e i suoi amici sembrano quasi in apnea, mentre riflettono in silenzio sulla propria vita e posticipano quei cambiamenti necessari per apprezzarla come meriterebbe. Il film è un continuo inno d'amore alla vita, ma anche all'Italia, difettosa e bellissima, e la vita e l'Italia sembrano quasi sovrapporsi nei loro picchi e nei loro slanci, che fanno innamorare e disamorare continuamente di sé.
Come il Po, che salva o uccide, anche l'Italia può fare altrettanto, e così la vita: ma ciò che pervade il film da cima a fondo è quella commossa speranza di chi si sgrulla la polvere dai pantaloni e si rimette in gioco. Riko, diminutivo del secondo nome di Ligabue (Riccardo), vive una delle vite che il regista avrebbe potuto condurre, come ammette lui stesso, se non fosse diventato un cantante. Lui è un privilegiato, Riko no, ma lo sguardo di amore e frustrazione verso il proprio Paese è simile, anche se in fin dei conti l'amore prevale sulla frustrazione. Vero è che alla bellezza ci si assuefà, alle ingiustizie meno, ma "un paese ci vuole", scriveva Cesare Pavese, "non fosse che per il gusto di andarsene via": versi ripresi nel finale, che descrivono perfettamente il senso di appartenenza che si respira nel film. E il tono didascalico che a volte si può insinuare è stemperato dall'ottimismo che caratterizza tutto l'operato artistico di Ligabue. Da quella sincerità che anche qui si era prefisso in fase di scrittura e che è riuscito a trasmettere grazie a un attaccamento alla vita reale e contagioso.
Chiara Apicella, Movieplayer.it, 25 gennaio 2018
Ligabue affronta il trascorrere delle stagioni con onestà e schiettezza. Sono trascorsi vent'anni da un esordio, che tutti ricordano per la sua schiettezza e immediatezza, che si intitolava Radiofreccia. Non si può dire che l'artista di Correggio soffra di bulimia cinematografico-registica perché se tra il primo e il secondo film (Da zero a dieci) erano trascorsi quattro anni ora di tempo ne è passato quattro volte tanto. Perché per Ligabue il trascorrere delle stagioni ha un valore che non gli ha solo imbiancato capelli che rifiutano le tinture ma lo ha fatto crescere impedendogli al contempo di evitare di creare un fossato tra palco e realtà. Fatta la tara sui momenti di retorica che ogni tanto emergono quella che qui di fatto domina è la visione di qualcuno che conosce la materia che tratta perché non se ne è mai separato, neppure nei momenti di massimo trionfo.
È come se Campovolo non fosse stata esclusivamente un'apoteosi del rocker ma una vera occasione d'incontro in cui i Riko, i Carnevale, le Angela, i Patrizio e i Pavak (che si sentono e sono italiani) non fossero mai diventati massa ma rimaste persone.
Ognuno di loro sente ancora dentro di sé quella che il regista tedesco Edgar Reitz ha saputo sintetizzare con un'opera fiume rappresentata da un unico vocabolo: "Heimat". Si tratta del luogo in cui si coagulano gli affetti, la piccola patria dentro quella con la P maiuscola. Riko e i suoi amici la vivono e la sentono con tutte le paure di cui sopra. Qualcuno cade senza potersi più rialzare ma altri ci provano e, con fatica e dolore ma anche con forza d'animo e capacità di reinventarsi, ci riescono. Perché, come dice il protagonista, "ci vuole un niente a farsi piacere lo status quo" anche se non se ne è convinti. Ma così si finisce con il perdere non solo il rispetto per gli altri ma anche per sé e bisogna evitare a tutti costi che accada. Oggi più che mai.
Giancarlo Zappoli, Mymovies.it, 23 gennaio 2018
Made in Italy parla di amore, amicizia, problemi che arrivano e poi no, non se ne vanno affatto, restano lì a guardare come reagiscono le loro vittime e in base al loro punto di vista cambiano e diventano magnifiche emozioni. Una storia in cui praticamente non accade nulla di trascendentale – non c’è una meta specifica che non sia semplicemente vivere giorno per giorno immersi nella propria routine – ma in cui l’unico vero cambiamento avviene da dentro ed è talmente impercettibile che forse neanche si nota.
Col suo terzo film Ligabue mette in scena l’uomo non privilegiato che non è facendo un plauso ai guerrieri senza armi della quotidianità, senza tralasciare l’importanza i luoghi e i cibi dello stivale. Il binomio bellezza e putrefazione è pedante e sconvolgente; la macchina da presa inquadra l’immondizia e un attimo dopo Piazza San Marco, si tuffa in campi di girasole e poi ci assorbe di eternità nella Roma che un tempo apparteneva agli imperatori. Le location di Made in Italy sono cartoline che non ci fanno andare oltre la gabbia della consuetudine e la fotografia così drasticamente inframezzata tra luci e ombre è il risultato finale di una volontà (forse) precisa di far risalire a galla, sulla superficie della celluloide, solo gli inserti spettacolari meglio noti come dettagli – la colonna sciupata dai secoli, gli archi scrostati, il fiume sporco – come se tutto altro non fosse che un veicolarci verso i dettagli incrostati di vita.
La regia di Ligabue si rivela intima, inframezzata spesso e volentieri da flash di buio per farci intendere che si sta cambiando scena e la rock star è di certo promossa in questa sua impresa con la settima arte, considerando che la telecamera non è la sua arma per eccellenza.
Il film, nel suo complesso, si lascia guardare e ascoltare, incagliandosi tra evitabili ovvietà, soliti cliché e frasi intrise di retorica. Made in Italy dopotutto ha un pregio: raccontare la normalità senza pietismi e critiche, lasciando sul fondo una smorfia simile a un sorriso.
Teresa Monaco, Cinematographe.it, 24 gennaio 2018