Critica
Se c’è una cosa che colpisce e che fa la differenza in Easy Living è il suo sfuggire alle facili omologazioni, alle sicurezze di una comfort zone, ma soprattutto alle etichette.
L’opera prima dei fratelli italo-giapponesi Peter e Orso Miyakawa, ben accolta lo scorso novembre al Torino Film Festival e ora nelle sale in cerca di ulteriori consensi, è un “oggetto” audiovisivo anomalo e grezzo, che si aggira nel panorama cinematografico come un corpo estraneo.
Il che lo rende una spiazzante mina vagante da intercettare e fruire con curiosità, poiché la sua natura narrativa, drammaturgica, oltre che estetico-formale, è il risultato di un modus operandi che fa dell’istinto da una parte e del carattere evocativo dall’altro (patina anni Ottanta, zoom a schiaffo e spirito da B movie), il carburante che ne alimenta il motore.
Il DNA è quello di una commedia dai toni malinconici e vintage, mescolati senza soluzione di continuità con uno humour volutamente sopra le righe, dal retrogusto british, ma mai sgarbatamente invasivo.
Quanto basta per costruire un plot fatto di piccole cose e di grandi sentimenti, quelli che legano i fili di un coming of age in cui la realtà contemporanea dei migranti di Ventimiglia viene filtrata dallo sguardo di un adolescente e trasformata in avventura.
Un’avventura al seguito di una galleria di strambi personaggi fuori dagli schemi, consumata nel vero senso della parola in un luogo al confine dove l’attesa estenuante e la tensione latente sono all’ordine del giorno.
Quattro ragazzi con storie di vita e di estrazione sociale differenti, uniti da un solo scopo, quello di aiutare un giovane immigrato a passare il confine con la Francia, è il baricentro su e intorno al quale ruota il film.
Una “missione” rocambolesca che presta il fianco a una tematica, quella della migrazione clandestina, sempre attuale, complessa da maneggiare, ma che gli autori scelgono coraggiosamente di declinare in una chiave leggera, con un tocco di speranza mista a umanità che ammorbidisce un dramma di fondo che sembra non avere fine.
Francesco Del Grosso, Cinematografo.it, 24 Settembre 2020
L'opera prima dei fratelli Miyakawa non è priva di problemi di scrittura (tutta la prima parte del film dà l'impressione di essere un assemblaggio di scene che dovrebbero avere lo scopo di caratterizzare i protagonisti) nonché di ingenuità (si veda la scena dell'incontro/scontro tra Don in bicicletta e un uomo con un enorme mazzo di fiori decisamente inutile nel momento in cui la tensione dovrebbe stare per crescere). Ma proprio in questa ingenuità e freschezza sta il pregio di questa piccola storia che ha un obiettivo che riesce a raggiungere: parlare di migranti senza retorica e senza virare forzatamente nel dramma.
Perché è la commedia a dominare con toni che rispettano le intenzioni dei registi che hanno dichiarato: "Abbiamo creato il personaggio di un migrante, ma con l'intenzione che non facesse semplicemente pena. L'abbiamo reso figo, l'abbiamo chiamato Elvis Presley e l'abbiamo fatto andare in giro con occhiali da sole e camicia hawaiana. Così che agli occhi di un ragazzino non suscitasse solo compassione, ma anche ammirazione".
È quanto accade a Brando che finisce con il rappresentare un possibile ed auspicabile futuro in cui sia il 'conoscere' qualcuno in difficoltà la molla che spinga ad un aiuto disinteressato che, in questa occasione, costringe ad esercitare la creatività. I Miyakawa potranno in futuro raffinare la loro scrittura ma questo esordio non manca di buone intenzioni.
Giancarlo Zappoli, Mymovies.it, 22 settembre 2020